«Ma dove sono le scimmie?», il lavoro dei migranti come dannazione

Nelle campagne la legge è dalla parte del padrone. Dal pontino al foggiano, dalla campagna milanese alla piana di San Ferdinando lo sfruttamento è figlio delle leggi: dalla Bossi-Fini al decreto Salvini in gran parte non toccato

La disarticolazione dei diritti del lavoro imposta dal neoliberismo di destra e da un riformismo di sinistra così moderato da avere accompagnato la precarizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici anziché contrastarla, ha riorganizzato i rapporti di forza tra capitale e lavoro a vantaggio esclusivo del primo.

È evidente nelle storie di quanti, anche ultracinquantenni, lavorano stabilmente precari nei call center, come rider, nei fast food o nei supermercati h24. Per non parlare del lavoro schiavistico nei campi agricoli, nella logistica, nella pesca, nell’assistenza domiciliare e in edilizia. Carla, ad esempio, ha 55 anni e lavora per diverse famiglie italiane aiutandole nella gestione della casa. «In trent’anni non ho mai visto un contratto – racconta al telefono – ho iniziato per alcune famiglie romane benestanti ma dopo 30 anni di lavoro non ho risparmiamo nulla. Ho lavorato per i padroni e per la sopravvivenza. Con la pandemia ho smesso di lavorare. Mio marito ha una pensione di 450 euro e riusciamo ad arrivare a fine mese solo perché la nostra salute resta buona e nostro figlio ci paga le bollette e l’affitto».

Indira è invece una bracciante indiana della provincia di Latina e racconta di aver lavorato «per nove mesi per un padrone insieme ad altre quattro connazionali senza aver ricevuto un euro. Facevamo oltre dodici ore al giorno. Vedevamo i camion carichi della frutta che raccoglievamo partire per tutta Europa ma per noi il padrone non aveva mai i soldi». Non è l’unica esperienza negativa. «Ho anche lavorato per una grossa azienda – ricorda Indira — ma non c’era libertà. Il padrone ci multava di 20 euro quando ci sentiva parlare in punjabi che significava lavorare quasi gratuitamente. Per mesi abbiamo avuto i bagni rotti, non ci veniva fornita l’acqua e facevamo una pausa sola di trenta minuti. Alcune amiche sono state anche ricattate e violentate dal padrone».

Forse non basta e allora si può ricordare un’inchiesta che ha fatto scalpore. Era il 10 giugno 2020 e la Guardia di Finanza di Cosenza esegue oltre 50 misure cautelari, sequestra aziende e molti beni. In questo caso più di 200 lavoratori risultano gravemente sfruttati.

Le intercettazioni sono inquietanti: «Dove sono le scimmie?», chiede un imprenditore al suo caporale. «Facciamo venire le scimmie e domani cerchiamo di finire», continua. In un altro stralcio, imprenditore e caporale trovano il modo di soddisfare il bisogno di acqua dei lavoratori: «Siccome ai neri mancano un paio di bottiglie di acqua, gliele riempiamo nel canale. Se ci sono un paio di bottiglie vuote. Quelle che trovi quando togli i cespugli». Non sono casi marginali ma l’espressione di un capitalismo predatorio che agisce per mezzo del lasciapassare della politica. Vale per il Sud e per il Nord del paese.

Ad agosto 2020 a Cassina de’ Pecchi, ad una quindicina di chilometri da Milano, una start up innovativa che faceva del «km zero» la sua carta vincente nascondeva sfruttamento e umiliazione. I lavoratori avventizi lavoravano un paio di giorni e poi venivano scaricati, ovviamente senza essere pagati. Gli altri cento dovevano invece lavorare 11 ore al giorno per paghe da fame mentre il proprietario si vantava del clima di terrore imposto: «Con loro devi lavorare in maniera tribale, devi fare il maschio dominante».

Quest’organizzazione capitalistica e padronale deriva da norme, riforme e linguaggi che hanno avvelenato il sistema dei diritti del lavoro.
Tra le molte che potremmo elencare, la Bossi-Fini del 2002 ancora in vigore, il pacchetto Sicurezza del 2008 che ispira il noto «saremo cattivi» dell’allora ministro legista dell’Interno Maroni, il reato d’immigrazione clandestina del 2009, il decreto Sicurezza, oggi solo in parte superato, con la mannaia che tirò al sistema di accoglienza mentre il ministro Matteo Salvini urlava: «La pacchia è finita!».

Fu proprio questa la frase che pronunciò il 2 giugno 2018, festa della Repubblica, mentre veniva ucciso a fucilate il 29enne maliano e bracciante Soumaila Sacko per via del tentativo di recuperare qualche lamiera in una fabbrica dismessa con lo scopo di costruirsi una baracca nel vicino ghetto di San Ferdinando.

MARCO OMIZZOLO

da il manifesto.it

foto: screenshot

categorie
Mondo lavoro

altri articoli