Da Fedez ai No Tav: il Primo Maggio non “istituzionale”

Ci sono palchi su cui si dovrebbe mantenere quella cortesia un po’ istituzionale che non permette di deviare dalla scaletta data, dalle parole concordate in virtù del fatto che...

Ci sono palchi su cui si dovrebbe mantenere quella cortesia un po’ istituzionale che non permette di deviare dalla scaletta data, dalle parole concordate in virtù del fatto che sono luoghi dove la formalità è anche sostanza, per tradizione, per ciò che si rappresenta, per ciò che si pretende in qualche modo di potere e dovere rappresentare.

Anche il Parlamento, metaforizzando un po’, è un palco, una tribuna da cui parlare in nome del popolo italiano, dei propri elettori, per difendere gli interessi del Paese, per tutelare i beni comuni e lo stato sociale.

Eppure c’è palco e palco: dagli scranni di Monte Citorio e di Palazzo Madama si può fare ostruzionismo parlamentare, architettando ogni stratagemma possibile per fermare la discussione di una legge (che ora finalmente andrà al dibattito in Senato) il cui unico scopo è ampliare i diritti degli omosessuali e di tutte le persone LGBTQI+ e dei portatori di handicap, che non possono e non devono essere impunemente oggetto di scherno, di aggressione verbale o fisica.

C’è palco e palco, dunque. Da quello del concertone del Primo Maggio si può solo cantare e rivendicare nella correttezza espressiva di un buon linguaggio borghese di famiglia perbene (e perbenista) i diritti dei lavoratori, stando attenti a non chiamare per nome e cognome i responsabili della precarietà, della instabilità politico-economica attuale, del vasto disagio sociale che la pandemia ha accresciuto esponenzialmente.

Forse la televisione italiana vorrebbe che quel palco, come tanti altri (Sanremo compreso), fossero politicamente corretti e non vi fosse nulla fuori posto: va bene, la festa del lavoro (che in realtà sarebbe la commemorazione postuma dei martiri di Chicago nel proporre al mondo un giorno di protesta e di lotta proprio per l’emancipazione proletaria) deve essere accettata un po’ da tutti, anche dai padroni; come si accetta la presenza ormai storica e sistemica (purtroppo) del sindacato entro la “logica” capitalistica dei rapporti di classe. Ma poi, oltre questo limite di inevitabile accettazione, non si deve trascendere troppo. Ciò che è opportuno è ciò che è non solo legale, ma anche ciò che non turbi l’opinione che il pubblico può avere della “pace sociale“.

I sindacati, l’ANPI, l’ARCI e tante altre associazioni sono pronte a rivendicare i diritti costituzionali, che sono importantissimi, ma sempre e soltanto dentro una cornice di assoluta legalità: chi ha il coraggio di sfidare i divieti imposti dai decreti sull’emergenza sanitaria (che divengono in questi frangenti anche ottimi freni per la libertà di riunione e di manifestazione, ammesso che entrambe si svolgano nel massimo rispetto delle linee di prevenzione del Covid-19) e sfila per le vie di Torino prendendosi anche delle manganellate, diventa un estremista, un provocatore, un agitatore, una specie di sovversivo.

Vanno considerati come dei complimenti, perché il Primo Maggio, così come il 25 aprile, pandemia permettendo, non possono essere completamente silenziati, ma vissuti popolarmente e quindi nella piena espressione politica collettiva.

Il palco del concertone del Primo Maggio è l’altra occasione in cui le voci, che vengono ascoltate da milioni di giovani e da altrettante di adulti, hanno la possibilità di comunicare urbi et orbi il disagio che permea una società frustrata, piena di rabbia, che confonde pancia e testa, che scambia come nemico di sé stessa colui che è nella medesima condizione di indigenza.

E’ un palco politico per definizione, anche se la manifestazione è organizzata dai sindacati. E’ un palco sociale per natura e la musica non fa altro che amplificare quelle rivendicazioni, veicolandole al meglio, facendo arrivare i messaggi ben oltre la formalità istituzionale delle dichiarazioni politiche di deputati e senatori o di altri leader di partito: la potenza del sonoro eleva i concetti, li sublima e li regala alla comprensione anche di chi non comprenderebbe mai del tutto una giusta causa che lo riguarda direttamente.

Ma c’è un’etica del messaggio: qualcuno stabilisce, in linea di massima, ciò che è opportuno dire, oltre le note, fuori dai pentagrammi. Non va bene che si attacchi una parte politica: par condicio, suvvia! La si tira in ballo sempre quando si teme che una sola frase scateni un putiferio, metta in imbarazzo questo o quel ministro, questo o quel gruppo politico, imprenditoriale o finanziario.

Secondo la RAI sarebbe “inopportuno” dire che una serie di leghisti hanno pronunciato nel corso del tempo parole discriminanti e di vero e proprio odio nei confronti degli omosessuali. Tutte le frasi lette da Fedez sul palco del concertone del Primo Maggio sono rintracciabili su qualunque quotidiano cartaceo e online, su qualunque agenzia di informazione. Sono date ormai al giudizio della storia.

Ma rivivono nel presente proprio nel momento in cui la Lega tenta di frenare la calendarizzazione prima e la discussione poi del Disegno di Legge “Zan” titolato: “«Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità». Un attacco alla libertà di espressione per alcuni, di pensiero per altri; un fare di alcune persone delle sorte di privilegiate, di più uguali di altre.

Così scrivono senatori del partito passato disinvoltamente dal più ferreo secessionismo al più intransigente nazionalismo sovranista: secondo loro sanzionare la discriminazione verbale e qualunque forma o atto violento nei confronti di omosessuali e disabili è frenare una non ben comprensibile libertà di elucubrazione, di definizione di concetti rimarchevoli che vanno sempre a colpire – psicologicamente o materialmente – chi viene impropriamente considerato “diverso” e trattato come tale rispetto alla maggioranza che si ritiene invece depositaria della “normalità“, della “naturalità” che la rappresenterebbe appieno.

Giusto nemmeno un mese fa, un consigliere leghista di Reggio Emilia aggiungeva al vasto parterre di citazioni omofobe e discriminatorie verso le persone LGBTQI+ questa chicca: «Se i gay vogliono l’uguaglianza allora devono comportarsi come persone normali e mettersi sullo stesso piano degli etero». Ed è una delle più sobrie frasi che sono state pronunciate nel merito. Altri si sono spinti ad invocare ciò che Fedez ha ricordato: quel retroterra anticulturale, anticivile, immorale, pregiudiziale e discriminatorio che è il freno tirato per fermare il cammino del disegno di legge Zan. Dai forni crematori per gli stessi propri figli, qualora fossero gay, fino al più “moderato” postulato secondo cui non sarebbe offensivo appellare con “finocchio” o “frocio” gli omosessuali.

Ciò può essere vero soltanto in un caso: se siamo noi gay a deriderci benevolmente, scherzando e scambiandoci titoli che se detti dalla cosiddetta “maggioranza etero” sarebbero discriminatori quasi ante litteram, proprio perché non si è parte in causa nell’insulto, ma parte della causa.

Fedez ha avuto un certo coraggio nell’esporsi pubblicamente: indubbiamente ne guadagna in visibilità (di cui certamente non ha bisogno…), ma si schiera anche, sceglie la partigianeria, quella aperta, senza infingimenti, appunto oltre il politicamente corretto, il detto e non detto, il fatto intendere, il sottinteso. Ha avuto coraggio anche nello sfidare la RAI che, visti i precedenti, non dimentica mai chi esce dai ranghi, dal perimetro del perbenismo catodico che – almeno fino a qualche decennio fa – la televisione intimava a chi vi entrava per farsi conoscere al grande pubblico.

Un timore reverenziale per la vastità della comunicazione, per la responsabilità di ciò che si diventava nell’assumere i connotati di persona che ha una sorta di servizio pubblico entro quello che avrebbe dovuto essere il “servizio pubblico” televisivo per antonomasia.

Il Primo Maggio deve essere irriverente, ribelle, disobbediente e rivendicativo, non solo una ricorrenza o un giorno di vacanza. Con tutte le dovute differenze, Fedez e i No Tav hanno interpretato palchi e piazze nel primo modo, rianimando le coscienze, togliendo alla festa il suo ruolo formale, da buona creanza borghese, tutto istituzionalizzato.

Le differenze di classe ci sono anche in questi contesti differenti: Fedez guadagna cifre che un riders o un qualsiasi lavoratore salariato o precario non si sognerebbero nemmeno di vedere in dieci o venti vite. Forse di più. Ma se l’unico argomento dei detrattori è questo, per sminuire il valore delle sue parole, non fa onore né a chi lo reputa un punto di principio a sinistra, né a chi lo ritiene un valido contrappunto a destra. Per chi lo solleva vale questo principio: siete contro le grandi ricchezze accumulate? Bene. Allora da domani, cari sovranisti, unitevi alla lotta per la patrimoniale, per una tassazione fortemente progressiva, archiviando la generosissima “flat tax“.

Adesso Fedez diventerà una sorta di eroe, anche per qualcuno a sinistra: non penso che voglia esserlo. Non ha bisogno nemmeno di questo: per milioni di adolescenti e di giovani, sia lui sia la moglie sono già ben oltre la categoria dell’eroismo che è troppo medievale o troppo militare per essere giustamente descrittiva del ruolo pubblico, quotidiano di due influencer.

Ed è appunto questo che deve essere messo in rilievo: l’influenza che le persone che si esercitano a vario modo nell’ambito della cultura, proponendosi come modelli anche indirettamente. Salvini sostiene che il palco del concertone del Primo Maggio costa mezzo milione, tutti soldi pubblici, e che quindi «…i comizi ‘de sinistra’ sarebbero fuori luogo». E’ davvero imbarazzante. Più del solito. Più ancora dei post in cui ci mostra di gradire la carbonara fatta male o un budino. Basterebbe aver visto Report del 26 aprile scorso sulle due Leghe, sul 2×1000 e sull’eterna faccenda dei 49 milione di cui parlano anche i sassi.

Se servisse anche soltanto per aprire un po’ la mente acritica di tanti ragazzi e di tante persone adulte; se servisse anche solamente per farli indignare un attimo in più del solito e farlo sapendo che cultura e critica vanno di pari passo, quel mezzo milione di euro sarebbe ottimamente speso.

Chi ha già un sacco di debiti con lo Stato italiano farebbe bene a scoprire la terapia del silenzio: pecunia non olet, ma le cazzate sì.

MARCO SFERINI

2 maggio 2021

foto: screenshot tv

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