L’Italia sempre più vicina ai confini della guerra

Nella prima decade di marzo, quando i russi premevano su una linea di oltre 400 km sul fronte ucraino, da Kiev a Kharkiv, dal Donbass a Kherson e la...

Nella prima decade di marzo, quando i russi premevano su una linea di oltre 400 km sul fronte ucraino, da Kiev a Kharkiv, dal Donbass a Kherson e la minaccia dell’invasione totale stava scompaginando le carte e i piani delle cancellerie occidentali, della NATO e degli Stati Uniti nella conduzione di una guerra ipotizzata fin dal 2014, il ministro Guerini andava a Budapest per siglare con l’Ungheria di Orbán un accordo di cooperazione militare, sottolineando già allora come tutto questo andasse letto nell’ottica della mera “deterrenza” rispetto ad un eventuale allargamento del conflitto.

Assolutamente nel solco  delle dichiarazione di Biden e Stoltenberg, per cui ogni mossa di Washignton e dell’Alleanza nord-atlantica è volta a preservare solamente l’integrità dell’Ucraina, la sua indipendenza e a fermare il conflitto prima che si estenda oltremodo ai paesi europei che fanno parte della NATO, le parole di Guerini avevano inteso riferire di una Italia pronta a dare tutto il suo sostegno incondizionato alla linea tracciata oltreoceano.

Una volta spinto l’acceleratore sulla probabilità che l’Ucraina chiedesse l’ingresso nella UE e nell’Alleanza “difensiva” datata 1949, esacerbati gli animi popolari, sollevati gli orpelli che nascondevano ipocritamente la volontà di pace nel Vecchio continente, la contromossa imperialista di Putin diventata solo questione di tempo.

Ad uno scenario come quello apertosi il 24 febbraio scorso erano pronti, se non proprio tutte e tutti, almeno i governi delle grandi potenze, la stessa NATO e molti servizi segreti: sono stati gli ucraini a rivelare che proprio l’Ungheria di Orbán era al corrente dell’attacco russo da prima che questo venisse caldendarizzato con precisione e che gli USA sapevano che Budapest a sua volta sapeva.

Mentre la guerra si avvia ai suoi primi, lunghi, orribili tre mesi, le notizie e gli scoop si susseguono: il New York Times, dunque non un pericoloso quotidiano putiniano o radicalmente pacifista, ha rivelato che l’amministrazione americana ha supportato in tutto e per tutto Kiev nell’eliminazione di una serie di generali russi e nell’affondamento dell’ammiraglia della flotta russa nel Mar Nero. L’affondamento della “Moskva” sarebbe stato difficile da mettere in pratica per un esercito come quello ucraino che, seppure addestrato dall’occidente da anni e anni all’uso dei più moderni armamenti (droni turchi compresi), rimane una forza armata notevolmente inferiore a quella russa.

A metà marzo, dunque, Guerini siglava con Budapest un accordo di cooperazione militare che concerneva nello specifico: l’addestramento comune delle truppe terrestri, di mare e dell’aria (sotto l’egida NATO) e la collaborazione economico – industriale a questo proposito.

Si trattava di uno dei vari incontri bilaterali fatti dal nostro Paese nel contesto di una corsa al riarmo che era già divenuta il demone padrone di una Germania la cui guida socialdemocratico-verde-liberale faceva pensare a tutt’altro, ad un atteggiamento prudente e non sconfessante la tradizionale di Bonn prima e Berlino poi da ogni ipotesi di intromissione diretta o indiretta in un qualche conflitto.

Lo scenario è completamente cambiato dal 24 febbraio, con l’avvicendarsi dei capitoli di una guerra già dichiarata otto anni fa da Mosca contro Kiev per sostenere una separazione del Donbass e della Crimea dalla madrepatria e una loro annessione alla Federazione russa. Mentre per il primo si è trattato di una secessione reclamata dalla popolazione autoctona, su cui è intervenuto pesantemente l’esercito ucraino per anni e anni, la seconda è stata rapita dal Cremlino, costretta a tracciare un confine tra sé stessa e il resto del paese.

I presupposti affinché una ridefinizione della geopolitica mondiale ed europea passassero da una contesa sul territorio ucraino vi erano già tutti ben prima dello scoppio della seconda fase del conflitto, in cui ora ci troviamo completamente immersi. L’Italia, in tutti questi anni, non ha pensato mai di essere portatrice di una linea diplomatica a livello europeo, di promuovere una conferenza di pace insieme ad altri Stati per stabilire preventivamente, ad esempio, che gli accordi di Kiev venissero realmente rispettati.

Roma, Parigi, Berlino, Londra e ovviamente Washignton, sono state a guardare l’evolversi degli eventi interni all’Ucraina per cercare di capire quale sarebbe potuta essere la soluzione più vantaggiosa per USA e NATO e, magari, pure per quell’Europa che ha sempre balbettato di politica estera e non è mai riuscita a trovare una comune espressione in tal senso, così da essere – oltre che apparire – qualcosa di più oltre un semplice coordinamento economico e finanziario di 27 Stati molto, molto diversi fra loro.

Tutta la forza della deterrenza proclamata tanto da Biden e Stoltenberg quanto da Draghi e Guerini, viene così apertamente sbugiardata proprio mentre la guerra prende campo e si intensifica: la vera prevenzione deterrente sarebbe dovuta essere fatta prima che i cannoni sparassero, che gli aerei bombardassero e i carri armati russi si mettessero in colonne lunghe decine di chilometri per assaltare le città ucraine.

Dopo l’inizio del conflitto, ciò che si poteva mostrare all’opinione pubblica in quanto a buona volontà dei governi per promuovere la pace con la guerra era concordare prezzi economici e costi umani della guerra, così da abbassarli il più possibile, facendo pure la parte dei benevoli, di quelli che hanno davvero a cuore la vita delle persone. Le lacrime di coccodrillo non si sono fatte attendere e a profusione ne sono scorse.

Dal patto Budapest – Roma sull’interazione militare ed economica a sostegno delle operazioni NATO al confine don la Galizia, oggi si è arrivati ad un nuovo salto di qualità in merito al coinvolgimento dell’Italia nella guerra. La secretazione dell’elenco di armamenti inviati dal nostro Paese all’Ucraina, siglata dal Comitato Parlamentare per la Difesa della Repubblica, sta progressivamente venendo meno: sappiamo, dal ministro Guerini in persona, che Roma ha fornito a Kiev «dispositivi in grado di neutralizzare le postazioni dalle quali la Russia bombarda indiscriminatamente le città e la popolazione civile».

Ciò significa un impegno dell’Italia nella guerra che diventa diretto, senza più infingimenti e pelosi fraintendimenti di sorta.

E questo non soltanto perché Putin considera nemici propri e della Russia tutti coloro che sostengono Kiev con opere che sono tutt’altro di carità e umanitarie, ma perché ogni politica del governo Draghi da due mesi a questa parte è volta ad implementare le spese militari, il riarmo, la ridefinizione strutturale delle forze armate, il loro impiego nei contingenti NATO ai confini con l’Ucraina con compiti che variano da paese a paese: in Lettonia esercitazioni tattiche, in Romania con compiti di sorveglianza dello spazio aereo e navale.

In tutto stiamo mettendo a disposizione di Stoltenberg 1.400 militari a cui si sommeranno altre 2.000 unità se la guerra dovesse intensificarsi e minacciare i confini del territorio dell’Alleanza nord-atlantica.

Qualcuno si ostina a chiamare tutto questo con mille nomi ma, proprio come Putin lo impone nella sua Russia, ad evitare di dire che l’Italia è in guerra. Non è purtroppo la prima volta che accade: abbiamo sostenuto e combattuto guerre che venivano definite “missioni umanitarie“, “esportazioni della democrazia” e “protezione delle popolazioni locali“: della Somalia, della Libia, dell’Iraq, dei Balcani…

E tutte le volte che questo è stato fatto, si è invocata proprio la Costituzione per affermare che la copertura legale c’era, che il diritto era dalla nostra parte e che si andava a sommare a punti di principio, ad una morale superiore, ad un’etica istituzionale che si univa a princìpi universali di cui l’Occidente si faceva portavoce e portarore.

Poco importava se i popoli che andavamo a “proteggere” dai loro tiranni erano ostili ai nostri cosiddetti “valori“, all’idea di democrazia che il liberalismo prima e il liberismo poi ci hanno inculcato nella mente. Noi dovevamo sostenere chi voleva imporre il proprio dominio imperiale sul mondo, per appropriarsi delle ricchezze e delle materie prime di quelle vaste aree del pianeta, con la scusa di estendere la civiltà laddove non era mai arrivata.

Lo hanno sperimentato Apache, Sioux, Comanche… tutti i nativi americani il cui genocidio è ancora oggi difficilmente raccontabile se non rischiando di essere etichettati come nemici di quella libertà portata nel Nuovo mondo sulla punta delle baionette prima e col rombo dei cannoni poi.

La guerra non si sta avvicinando a noi. Siamo noi che ci stiamo appropinquando verso lei: passo dopo passo, senza bisogno che il Parlamento, già ampiamente svuotato del suo ruolo da un governo che risponde solamente a sé stesso, debba deliberare formalmente in tal senso. E’ la sostanza che conta. Possiamo così dire di non combattere, ma di armare i combattenti, di non lanciare missili ma di fornirli a chi li lancerà, di non sparare un colpo ma di permettere a chi si deve difendere di farlo con tutti gli armamenti del caso.

Guerini, dopo le dichiarazioni fatte, ha tenuto a precisare: «Il Parlamento non è stato escluso» dalla discussione e dalla compilazione della nota sulle armi date al governo di Zelens’kyj. Ha ragione, in Parlamento le voci critiche verso la guerra sono così poche che è sempre più difficile riconoscere le differenze tra Palazzo Chigi e Montecitorio e Palazzo Madama…

MARCO SFERINI

6 maggio 2022

Foto di Pixabay

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