Le due sinistre

Quante sono le sinistre? E’ una domanda lecita, che ha attraversato tutto il Novecento e che si è riverberata anche in questo nuovo secolo (e millennio). Socialisti, comunisti, socialdemocratici,...
Fausto Bertinotti

Quante sono le sinistre? E’ una domanda lecita, che ha attraversato tutto il Novecento e che si è riverberata anche in questo nuovo secolo (e millennio).

Socialisti, comunisti, socialdemocratici, ecomarxisti, libertari, con tutte le loro sottocategorie che, nella maggior parte dei casi, sono divenute vere e proprie aree politiche e, nonostante abbiano anche arricchito il dibattito sull’alternativa di società, sul modo in cui essere anticapitalisti o a-capitalisti, non hanno potuto evitare la frammentazione della sinistra stessa.

Quante erano le sinistre, forse, oggi siamo in grado di enumerarlo con una certa contezza. Quante siano diventate o siano rimaste, dipende non solo dai punti di vista ma anche dagli obiettivi che ci si pone, è davvero tutto da verificare. Nel 1997 Sperling & Kupfer Editori fece uscire un interessantissimo dialogo – intervista tra Fausto Bertinotti ed Alfonso Gianni dal titolo “Le due sinistre“.

Ventisei anni era certamente un’ottima fotografia del presente, descritta dal segretario di Rifondazione Comunista con una abilità analitica che ancora oggi, proprio a sinistra, si rimpiange. Oggi è una sorta di utile manuale per raffrontare lo spazio di una generazione e mezza e cercare di confrontare il capitalismo liberista delle origini con quello forse più maturo, e sicuramente più violento, della presunta modernità in cui ci troviamo immersi.

Dopo la fine della cosiddetta “prima repubblica“, dopo il passaggio dalla lunga storia proporzionalista della politica e del parlamentarismo italiano alla nuova era del maggioritario e dell’alternanza tra i poli, l’ambivalenza di un riformismo socialista, di un partito che allora si definiva “democratico della sinistra” e che pretendeva di essere adatto tanto alla lotta sociale quanto al componimento delle divergenze di classe nella compatibilità governista, entrò in crisi alla prima prova dell’esecutivo.

Chiamata dalla storicità della sua missione, assegnatale dalla nascita, quindi dalla fine del PCI, a gestire una fase di transizione dalla prima accecante tappa della parabola ascendente del berlusconismo, federatore di una destra plurale, dal secessionismo bossiano al neonazionalismo ex missino, la sinistra moderata del PDS si confuse con il centro liberale (in realtà già prettamente liberista) e addirittura con la Lega Nord in una pseudo-maggioranza (vantabile solo al Senato sul piano meramente numerico) che dava per la prima volta vita nella storia del nuovo corso post-tangentopolizio ad un cosiddetto “governo tecnico“.

E’ qui che la sinistra si divarica nettamente e si può già chiaramente intuire che, dopo il 1989, le sinistre in Italia sarebbero state almeno due: una governista, moderata, socialdemocratica e riformista, che da allora puntò alla federazione con un centro liberale, con un cattolicesimo di base e sociale; una, per dirla alla Bertinotti, “antagonista” che avrebbe fatto, per lo meno in questa prima fase, dell’opposizione comunista e dell’anticapitalismo il cuore dalla sua proposta al mondo del lavoro e di quel precariato che, di lì a poco, sarebbe esploso in ogni dove.

A domanda di Alfonso Gianni, il già sindacalista della CGIL e in allora segretario nazionale di Rifondazione, risponde: «Vi è [nella sinistra moderata] una incapacità culturale di intendere le ragioni di una rinnovata critica al capitalismo. Una propensione integralista fa sì che la cultura politica di riferimento venga considerata come unica».

E’ la traduzione italiana di un comportamento largamente diffuso nelle intellighenzie di molti paesi occidentali: l’abitudine al “pensiero unico“, ad una singola lettura “giusta” del sistema del profitto e delle merci, insuperabile ma solamente – per l’appunto – riformabile e accettabile in quanto tale come limitare della Storia, come ultimo approdo di una umanità invece sempre più in subbuglio, in movimento (letteralmente… basta vedere oggi il fenomeno crescente delle migrazioni di massa da est e dal sud del Mediterraneo), sempre più diseguale sul piano sociale così come su quello civile.

Bertinotti e Gianni trascorrono molto tempo a discutere della collocazione europea delle sinistre di allora: il PDS nell’alveo socialdemocratico, Rifondazione Comunista nel Partito della Sinistra Europea che prenderà sempre più corpo come orizzonte davvero continentale di una parte rilevante del progressismo post-sovietico, in una idea unitaria che rifletta le torsioni del capitalismo nelle sue declinazioni “locali“, nei singoli poli di attrazione delle risorse e delle nuove spinte imperialiste verso le zone ancora da globalizzare appieno (quindi, leggasi: da sfruttare).

L’Europa diventa il “teatro dell’azione” per le sinistre dei singoli paesi della UE. Ma è anche una sorta di trampolino di lancio verso un mondialismo dei movimenti che si stanno in quegli anni coordinando per offrire alle popolazioni più consumate dall’indigenza una sorta di “nuova Internazionale“, di speranza per un futuro sempre più apocalittico: di lì a poco, con Porto Alegre e il Forum Sociale Mondiale la sinistra di alternativa troverà la sua capacità espansiva tutta nuova e tutta da inventare.

Sarà la crescita di una critica radicale al sistema, inaccettabile per l’altra sinistra, quella moderata e riformista, tutta imperniata sulla compatibilità col capitalismo “ben temperato“.

Sarà un importante crinale distintivo, una ennesima prova dell’esistenza di due, forse anche tre o quattro, approcci nettamente differenti in merito alle problematiche sociali che investono il mondo del lavoro, quello della scuola come quello degli ex baluardi dello stato-sociale di felice intuizione novecentesca ed anche socialista-reale. Forse l’unica nota positiva di quel grande agglomerato di regimi che crollerà impietosamente nel 1989.

La necessità di un aggiornamento dell’analisi impone alle sinistre in campo anche un adeguamento concettuale, linguistico, comunicativo. Mentre Rifondazione parla di “riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore a parità di salario“, il PDS punta a “mandare la sinistra al governo del paese“. La rivendicazione comunista e l’aspirazione socialdemocratica non sarebbero in contrapposizione se i pidiessini non avessero in mente una politica dal tenore liberale, dall’impianto nettamente sbilanciato a favore del mercato, di Confindustria e del liberismo che sopravanza.

Una delle questioni dirimenti, proprio nei programmi dei partiti della sinistra di allora, è quella fiscale: sulla riforma delle entrate dello Stato, della tassazione diretta e indiretta si gioca una partita tutt’altro che di secondo piano.

La progressività fiscale rimane inequivocabile nelle richieste dei nuovi comunisti, mentre in quelle dei nuovi socialdemocratici si lascia superare piano piano dal regime delle aliquote, dal passaggio ideologico, ideale, culturale e quasi antropologico dalla difesa del lavoratore a quella della “persona“, del “cittadino” senza alcun riferimento “di classe“.

Il mutamento della sinistra riformista in una sinistra sempre più vicina ai disvalori del mercato, convertita ormai all’accettazione piena del capitale come struttura, motore e leva dell’esistente e del futuro, crea un certo spazio per le comuniste e i comunisti, percepiti da una parte della classe lavoratrice come gli eredi di un PCI maggiormente distinguibili nel tempo che trascorre, dopo le esperienze del governo tecnico diniano e i nuovi affacci di berlusconismo sulla scena.

La questione comunista, si intende, è posta soltanto da Rifondazione: per il PDS è archiviata dalla Bolognina in avanti. Per la destra amendoliana del PCI addirittura anche da prima. Bertinotti rileva tutto il peso di una storia epocale, di un mutamento rivoluzionario che, a partire dalla metà dell’800, ha segnato la storia del mondo intero e che si è lasciato dietro tante conquiste, altrettante sconfitte e molti drammi irrisolti nel tentativo di coniugazione del socialismo con la democrazia.

Proprio da una prospettiva molto pragmatica riparte l’analisi bertinottiana dei rapporti di forza, per dimostrare molto facilmente che, nonostante la sconfitta storica, la voglia di alternativa al sistema non è arrivata al suo punto di massima espressione, al suo zenit per poi precipitare con drastica rovina al suolo di un pragmatismo ineluttabile.

L’utopia marxista, facilmente descrivibile dalla nuova narrazione liberista dell’insuperabilità del capitalismo, descritto come “sistema naturale” per una vita certamente disumana e alienante alla massima potenza, è in fondo, proprio nella relazione con le due sinistre in esame, un campo aperto, largo, larghissimo di dibattito.

Si discuterà persino troppo delle tattiche e delle strategie, mentre avanzeranno le prepotenze di una destra affarista, corrotta, immorale, priva di qualunque scrupolo nell’arginare il potere di contrattazione sindacale, i diritti del mondo del lavoro, la capacità di azione della forza lavoro nel processo produttivo più generale.

Bertinotti sottolinea tutti i guasti che il centrosinistra di primo modello, quello del pentapartito, quello del craxismo, ha portato al Paese: da lì inizia la parabola discendente dell’operaismo, della massificazione delle lotte, della diretta interazione tra classe e partito, tra classe e sindacato, tra partito e sindacato e tra questi e le istituzioni stesse.

Deflagra nel rampantismo individualista una concezione sociale della solidarietà e viceversa: si interrompe quella interconessione tra generazioni che aveva sostenuto le lotte degli anni ’60 e ’70 e realizzato una piattaforma rivendicativa a favore del lavoro, mettendo in crisi persino l’unità confindustriale.

Si apre la via infinita e devastante delle privatizzazioni: il mercato avverte tutte le potenzialità del condizionamento di condizionamento dell’ulivismo prodiano. Rifondazione stessa, presa nella morsa del non favorire il ritorno delle destre, assorbita da un antiberlusconismo pressoché inevitabile, dovrà contorcersi in queste dinamiche tra lotta e governo, tra piazza e palazzo, tra rappresentanza sociale e istituzionale.

Afferma Bertinotti: «Qui si delinea [dal 1992 con il governo di Giuliano Amato] una nuova fase: il coinvolgimento del centrosinistra, e con esso della sinistra moderata, nel progetto delle privatizzazioni. Perché accade? Secondo me per un cedimento ideologico, politico e culturale della sinistra governativa».

Almeno fino al superamento del PDS e dei DS nel PD, le “due sinistre” rimarranno una costante nella vita del Paese. Tutto si scompaginerà appunto con la fusione nell’anomalo bicefalo delle culture e delle politiche socialdemocratiche con quelle popolari. Ennesima perversione di una cultura dell’alternanza tra i poli, della ricerca di un interclassismo per una “pace sociale” duratura e non soltanto affidata al tempo di una legislatura.

Ed oggi, poter dire quante siano le sinistre è davvero difficile: sono saltati gli schemi di un tempo, sono cambiate radicalmente le forze politiche. I comunisti vengono dati per scomparsi (non senza una qualche ragione…), i socialdemocratici non pervenuti, mentre la sinistra rivive pallidamente nelle proposte di un tardivo progressismo pentastellato, della conquista della segreteria del PD da parte di Elly Schlein e molto meno nelle formazioni satelliti che ruotano attorno ai democratici.

Il progetto di Unione Popolare è tutto da inventare, Marx è morto da 140 e noi continuano a non sentirci tanto bene. E nonostante tutto… buona lettura.

LE DUE SINISTRE
FAUSTO BERTINOTTI con ALFONSO GIANNI
SPERLING & KUPFER EDITORI
€ 5,00

MARCO SFERINI

15 marzo 2023

foto: screenshot

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