L’assegno unico per i figli e il falso impegno sociale del governo

Universale, permanente, “grande riforma sociale“, straordinaria misura introdotta dal governo. Applausi a scena aperta, in corso d’opera. Mentre Brunetta ancora deve terminare di annunciare il come il quando saranno...

Universale, permanente, “grande riforma sociale“, straordinaria misura introdotta dal governo. Applausi a scena aperta, in corso d’opera. Mentre Brunetta ancora deve terminare di annunciare il come il quando saranno assunti 24 mila lavoratori nel pubblico impiego, Mario Draghi e la ministra Elena Bonetti gli rubano un po’ la scena con l’asssegno unico per oltre 2 milioni di famiglie più o meno in stato di disagio, che dimostreranno di voler in qualche modo fare figli e accettare un po’ soldi dal governo.

Si calcola che in media ognuna di queste famiglie riceverà circa 1.056 euro, praticamente 670 euro a figlio. Sarà un incentivo che non andrà a sostituirsi al reddito di cittadinanza e sarà applicabile alla prole anche già abbastanza cresciuta: fino ai 21 anni di età. Occorrerà però, per averlo, dimostrare di avere un ISEE inferiore a 50.000 euro, la cittadinanza italiana e quindi anche la contribuzione nei confronti del fisco nazionale.

Il provvedimento, magnificato da Italia Viva e dal PD (che se ne contendono la genitura), ma un po’ da tutta la grande maggioranza di salvezza nazionale all’ombra del superbanchiere europeo, partirà da luglio e nel 2022 diventerà strutturale. Come dicono nelle pubblicità che contano, dove brillano i diamanti: per sempre. Il governo vorrebbe attribuire a questa norma, timidante sociale, un carattere non solo rivoluzionario in materia di protezione dei diritti dei nuclei famigliari e dei figli, bensì mostrarla come il vero punto di partenza di una politica che miri ad incentivare quasi automaticamente le nascite, invertendo la curva demografica che porta inesorabilmente il segno “meno” davanti ad ogni cifra dell’ISTAT che riguardi i censimenti.

Una riduzione della popolazione italiana sostanzialmente causata dalla contrazione economica che si sposa benissimo con la riduzione dello stato-sociale a mero binomio da invocare per riaprire una stagione di diritti di ognuno e di tutti. Diritti scomparsi, falcidiati dalle controriforme privatistiche e dalla logica del mercato cui la politica italiana si è uniformata zerbinescamente ormai da tanti lustri.

La propaganda di governo è più che comprensibile. Ma le meravigliose sorti e progressive della futura riforma fiscale di Draghi e dei suoi ministri vanno a scontrarsi con la quasi completa assenza di tutta una rete di garanzie sociali che non possono far dire che un assegno unico dato alle famiglie sia, di per sé stesso, una chiave di volta che spinga i giovani a costruirsi un futuro che non vedono, facendo figli su figli per rimediare ai disastri del liberismo che ha governato per interposte persone, leghe, partiti e movimenti tutt’oggi seduti fianco a fianco a Palazzo Chigi.

Senza un lavoro stabile, senza salari dignitosi, senza una sanità completamente pubblica e garantita, senza pensioni degne di questo nome, che mettano in sicurezza le generazioni ormai fuori dal complicato mondo e mercato del lavoro, senza una scuola efficiente e non piegata ai dettami del rapporto unidirezione con le imprese a caccia di mano d’opera e menti a costo zero, senza tutto questo, qualunque cifra stabilisca il governo per le famiglie e per ogni singolo figlio finisce per essere solamente un pannicello caldo.

Il cambiamento sociale deve essere strutturale tanto quanto lo può essere il singolo provvedimento sull’assegno unico. Rivedere e, quindi, riconsiderare il rapporto dello Stato con i cittadini in materia di stato-sociale vuol dire capovolgere a cento ottanta gradi ciò che fino ad oggi è stato fatto. I giovani hanno tutto il diritto di arrivare ad una indipendenza economica vera, per essere autonomi sul piano del proprio sviluppo sociale nella pienezza dei diritti civili: si tratta di un complesso meccanismo di incastri che funziona soltanto se la base su cui cresce ed aumenta in quantità e valore è una base egualitaria e, al tempo stesso, segnata dal principio della progressività. Anzitutto fiscale.

Gli assegni unici previsti da Draghi e da Bonetti avrebbero una loro utilità  se dentro ad un contesto molto più ampio di giustizia sociale. Un contesto che non può prescindere da una considerazione diseguale da parte del fisco nei confronti dei cittadini. Un paradosso? Niente affatto.

Si tratta di evitare il populismo fiscale del “ce n’è per tutti allo stesso modo” facendo “parti diseguali tra non uguali“. Don Milani ammoniva da Barbiana proprio su questo punto, sul mostrarsi democratici in economia, dediti a non scontentare nessuno e fare parti uguali tra chi uguale ad un altro non è. Anche partendo da un punto di principio in assoluta buona fede, si finisce col penalizzare sempre chi ha meno e privilegiare sempre chi ha di più.

Davvero il governo pensa che, dando ad alcuni milioni di famiglie mille euro all’anno in più, queste meccanicisticamente si sentiranno così sicure e certe di poter mantenere dei figli se il lavoro rimane precario, se anche soltanto uno dei genitori non ha la certezza di poter mantenere dei pargoli e, prima ancora, di mantenere sé stesso e il proprio compagno o la propria compagna?

La progressività prevista dai versamenti dell’assegno unico non risolve il problema della diseguaglianza ormai endemica che attanaglia il Paese e che è completamente inserita nel contesto liberista europeo.

Si dirà: meglio che niente. Ed è ovvio, se la a prospettiva è sempre quella di non avere niente e di considerare una vittoria sociale le briciole che questi governi, amici dei grandi industriali e dei finanziari, gettano dal tavolo a qualche milionata di italiani già provati dalla crisi economica precedente il biennio pandemico.

Se queste sono le aspettative della popolazione, allora si spiega anche come mai i grandi temi che dividono l’opinione pubblica non siano quelli legati allo stato economico-sociale di ognuno di noi, ma piuttosto quelli che separano il povero dal povero, l’indigente dall’indigente nel nome della provenienza, dell’etnia, della razza, del suo “status” di moderno “censo” rappresentato dall’accesso a veri e propri marchi di riconoscimento (telefonini, abiti, auto, moto, eccetera) che fanno di alcuni dei cittadini rispettabili di serie A, di altri dei cittadini miserabili di serie B o C.

L’enfasi sull’assegno unico per i figli va lasciata tutta quanta al governo: mira a convincerci che, tutto sommato, non c’è motivo di voler protestare, scioperare e magari rivoltarsi contro un sistema che immiserisce sempre più ampie fasce di popolazione; che non c’è motivo di reclamare un nuovo stato-sociale; che ci si può fidare del superbanchiere, del re Mida della politica, di generali che pensano alle vaccinazioni e di una Europa pronta a concederci i soldi se adeguiamo ciò che rimane delle nostre garanzie sul lavoro, la sanità, la scuola e le pensioni, frutto di tante lotte dal dopoguerra fino agli anni ’80, agli standard del capitalismo continentale.

L’enfasi va lasciata la governo, va sbugiardata e va svelato l’inganno, perché i diritti sociali si riconquistano solo se rinasce la coscienza sociale, la voglia di una vera uguaglianza che è il contrario dell’elemosina di Stato per farci stare sommessamente buoni.

MARCO SFERINI

5 giugno 2021

Foto di StockSnap da Pixabay

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