La scossa elettrica di Strasburgo e la piccola politica italiana

Se il Parlamento aveva, a suo tempo, dichiarato ufficialmente che Ruby era la nipote di Osni Mubarak, allora tutto è e sarà sempre possibile, perché alla vergogna non esiste...

Se il Parlamento aveva, a suo tempo, dichiarato ufficialmente che Ruby era la nipote di Osni Mubarak, allora tutto è e sarà sempre possibile, perché alla vergogna non esiste limite quando si tratta di negare anche l’evidenza. E siccome l’evidenza è innegabile, ne consegue che la vergogna che non si prova negandola è uguale e contraria al tempo stesso.

Così accade che oggi, invece di discutere di notizie molto più importanti, come ad esempio lo stop alla produzione di veicoli a benzina e diesel dal 2035, con decretazione europea passata nel giudicato dell’Europarlamento, le cronache sono piene del fattaccio che riguarda il processo “Ruby ter” a Silvio Berlusconi.

E’ la damnatio di una Italia che si guarda l’ombelico, mentre tutto attorno il mondo si apre a prospettive differenti di mercato, cerca di intravedere da molti anni una conversione energetica e ambientale che sia espressamente un buon affare per le grandi case automobilistiche e per tutti quei settori che producono veicoli, piuttosto che una occasione per iniziare a pensarla diversamente sul disequilibrio tra umanità e natura, tra umanità e pianeta Terra.

Se nelle aule di tribunale si assolve il leader di Forza Italia per vizi tecnici, per via del fatto che i pubblici ministeri non avevano indagato quelle che erano rimaste delle semplici testimoni dei fatti, altrove si discute dell’impatto enorme che avrà il cambiamento epocale dalla mobilità a carburanti a quella elettrica.

Le domande che ci inizia a porre, visto che i tempi appaiono grossolanamente lunghi e dispendiosi, è se questo nostro disgraziato Paese sarà in grado, al pari ad esempio di Germania, Francia e Stati Uniti, di essere al passo con le scadenze dettate, visto che non si tratta semplicemente di mettere in moto (è proprio il caso di dirlo…) la macchina di una semplice prassi burocratica generale, ma una grande produzione che sia parte di un processo di adeguamento che riguarderà tanti e tanti indotti.

Diversamente dai paesi citati, dove le case automobilistiche nazionali sono molteplici, in Italia il dominio pressoché assoluto del mercato riguarda la sola vecchia FIAT che, da Chrysler Automobilies e PSA, è passata ad essere inclusa nel contenitore globale di Stellantis. Se Audi, Volkswagen e altre case produttrici dichiarano di essere già al passo con i tempi dettati da Strasburgo e da Bruxelles, in casa nostra c’è qualche pruriginosità al riguardo.

Lo stesso governo delle destre meloniane ammette, per dichiarazione di Adolfo Urso, che la situazione nazionale è tutt’altro che rosea in quanto a pianificazione della transizione automobilistica e, in generale, per una riforma complessiva del sistema dei trasporti. A questo proposito, le parole del ministro sono “illuminanti“: «Tempi e modi che l’Europa ci impone non coincidono con la realtà europea e soprattutto italiana. Non possiamo affrontare la realtà con una visione ideologica e faziosa che sembra emergere dalle istituzioni europee».

Siccome il groviglio nasce in seno ai governi sia politici sia tecnici di unità nazionale, con esponenti leghisti alla guida, meglio affidarsi, in controffensiva, alla scusa dell’ideologismo della UE in materia di tutela ambientale e di corsa ai ripari dal punto di non ritorno: ancora una frase sola e il ministro avrebbe potuto tranquillamente asserire che, in fondo, mica esiste poi una “questione” globale in merito e che se l’Italia non è ancora pronta ad adeguarsi all’elettrico, parte di una più articolata transizione ecologica dell’economia (e quindi della società) la colpa mica è nostra.

Sono gli altri ad essere brutti, sporchi e cattivi, perché noi, discendenti delle romane generazioni al caldo della fiamma tricolore, siamo sempre e soltanto nel giusto. Così è ideologismo buonista il ritenere che i migranti non debbano morire a centinaia nelle fredde acque del Mediterraneo, ed è ideologia persino la delibera del Parlamento europeo, noto covo di sovversivi rossi, filobolscevichi e ostinati, cocciuti ambientalisti della malora.

Il modo in cui il governo tratta l’inadeguatezza tutta italiana alla conversione automobilistica all’elettrico – che, comunque non è la panacea di tutti i mali che riguardano la mobilità (sostenibile) – è indice chiaro di una superficialità politica che si riflette immediatamente nella scena di una competizione tutta europea: non c’è da stupirsi, poi, se Giorgia Meloni viene esclusa dagli abboccamenti a più voci tra i leader dei paesi vicini (ed anche lontani).

Nonostante questo, anche soltanto su un piano meramente formale, esponenti del PD riescono a dire che sì, tutto sommato la Presidente del Consiglio sta discostandosi poco dall’agenda draghiana o, se non altro, dal metodo Draghi: quello di privilegiare il ruolo istituzionale rispetto al politicismo, dimostrando di essere in grado di discernere tra interesse nazionale e interesse di parte e di partito.

Le valutazioni sul merito sembrano essere una variabile dipendente dal metodo. Tutto quanto. Una miopia impressionante, denunciata con qualche energica reazione almeno da Andrea Orlando che, molto più di Elly Schlein, rimbrotta i suoi amici di partito, visto che i risultati dell’esecutivo sono stati un continuo peggiorare le condizioni di sopravvivenza dei ceti più deboli, aumentando quelle diseguaglianze prodotte, in prima istanza, dalla spasmodica voglia di governismo e di compatibilità liberista del PD stesso.

Non bata però l’autocritica orlandiana per eviscerare la questione fondamentale dai pantani in cui è stata trascinata: la visione politico-economica del governo Meloni non è così distante da quella di un Bonaccini che vorrebbe porre le basi per una alternativa alle destre distinguibile soltanto sul terreno dei diritti e delle libertà civili.

La questione ecologica, ad esempio, che è anche questione del mercato mondiale dell’automobile, viene risolta dalla politica italiana, tanto a destra quanto nel centrosinistra, come un problema ineludibile soltanto perché questa ineludibilità è talmente evidente da essere una minaccia prima di tutto per il capitalismo e poi anche per il pianeta.

Il guaio è questo: si arriva per contrarietà alle decisioni da prendere, dopo che si è sbattuta la testa contro il muro dei fatti e non per libere decisioni dettate da una agenda sociale, politica ed economica che voglia davvero riformare, redistribuire e riconvertire tutte le energie del Paese.

In questo quadro, le decisioni aziendali dei produttori di veicoli da trasporto non hanno brillato per avanguardismo, per una dimostrazione di irreprensibile accelerazione sui tempi in merito ad una anticipazione degli stessi, investendo in un nuove brevettazioni e gareggiando così con la concorrenza della altre case automobilistiche.

Studi e articoli apparsi sul quotidiano della Confindustria dicono chiaramente che sta crescendo la domanda di auto elettriche e che, quindi, si va nella direzione sempre più convinta di una estensione anche del numero dei punti di ricarica per le nuove macchine, per i nuovi mezzi di trasporto. In questo ambito, il nostro Paese registra una nota positiva, perché le colonnine a cui agganciare le proprie auto ormai si trovano un po’ ovunque.

A conti fatti, nel raggio di trenta chilometri, in ogni parte del territorio nazionale, si può essere sicuri di trovare almeno un punto di rifornimento energetico. Ma, anche in questo frangente, il divario tra nord e sud del Paese si fa sentire: il 58% delle colonnine si trova al settentrione, il 22% al centro e solo il 20% in tutto il sud.

Il mercato si muove tanto velocemente da impedire una correlazione diretta tra domanda e offerta, soprattutto per quanto riguarda l’unico produttore di automobili su vasta scala targato ancora Bel Paese. Tanti distributori elettrici e ancora troppo pochi investimenti governativi (e privati) sulla produzione di auto che escludano gli idrocarburi più inquinanti sul pianeta.

Riguardo ai mutamenti che interverranno nelle grandi aziende produttrici, il tema del lavoro non è per niente secondario: l’ingegneristica ci dice che occorrerà meno forza-lavoro per l’assemblaggio delle nuove atuomobili. Questo significherà un abbattimento dei costi di produzione e una redistribuzione della manovalanza nel migliore dei casi.

Se la concorrenzialità dovesse farsi imponente e, come spesso accade, prepotente, allora sarebbero per primi i salariati a subire le conseguenze di una cattiva politica di conversione ambientale delle produzioni e di una specie di nuova economia verde. Questo contrasterebbe, ancora una volta, con un assioma necessario: lavoro e natura possono (devono) andare di pari passo, complementandosi.

La contrapposizione è utile soltanto agli imprenditori, come leva di ricattabilità, come mezzo di gestione delle nuove politiche sia aziendali sia propriamente statali. I sindacati mettono già le mani avanti e denunciano le inadeguatezze della classe dirigente di una destra che è molto più che incapace nel proprorre un percorso indolore verso questa fase di grande transizione globale e locale.

Questa destra è volutamente ancorata ad un conservatorismo anche energetico: guarda al fossile e non al rinnovabile, perché i suoi punti di riferimento liberisti sono, soprattutto in Italia, aziende che vorrebbero dilazionare il passaggio imposto da Strasburgo e ottenere i massimi profitti possibili dal rimanente produttivo ancora a benzina e diesel.

Fossili storici post-fascisti e fossili odierni intrisi di conservazione e nazionalismo becero. Un mix esplosivo ma, certamente, molto, ma molto poco elettrico.

MARCO SFERINI

16 febbraio 2023

Foto di Mike B

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