La pace senza se e senza ma: un terreno comune con Bergoglio

Non è più solo propaganda russa, è un dato di fatto. Perché proviene da fonti del Pentagono e della NATO. Direttamente dal campo avversario, quindi. Il fronte ucraino fa...

Non è più solo propaganda russa, è un dato di fatto. Perché proviene da fonti del Pentagono e della NATO. Direttamente dal campo avversario, quindi. Il fronte ucraino fa sempre più fatica a stabilizzarsi. La primavera è alle porte e le forze russe stanno lanciando attacchi sun una linea di duemila chilometri che va da Kherson a Bachmut, passando per una trincerizzazione delle postazioni nel Donbass ancora in mano alle truppe di Kiev.

Sembra che la preoccupazione maggiore riguardi non tanto la preparazione delle nuove postazioni di difesa, quanto la mancanza estrema di munizioni. Qui tornano in ballo le informazioni occidentali sui reciproci armamenti e sulla capacità di produrne di nuovi.

Fino ad oggi Volodymyr Zelens’kyj ha potuto contare su una enorme quantità di rifornimenti che, con un notevole sforzo da parte delle industri che producono armamenti di tutti i tipi, sono stati garantiti all’Ucraina dirottando parti importanti dei capitoli di bilancio dei paesi europei e degli Stati Uniti d’America.

Oggi sta progressivamente cambiando non soltanto lo scenario internazionale sul piano meramente politico, ma anche, nella pratica, la possibilità di continuare su questa linea di condotta. Per un semplice, elementare motivo: sono quasi finite le scorte negli arsenali e la possibilità di rimpinguarli è estremente scarsa se paragonata a quella della Russia.

Sempre fonti della NATO ci dicono che per una singola munizione, pallottola piccola, media o grande che sia, prodotta dagli occidentali, Mosca è capace di produrne tre. Il rapporto è, quindi, di uno a tre a favore di Putin. Almeno se si considera la potenzialità che concerne il rifornimento delle truppe in quanto ad armamenti leggeri e pensati.

Kiev, inoltre, inizia a registrare un affaticamento delle truppe, molte diserzioni e fughe all’estero, un venir meno della sintonia tra la direzione politica della guerra e quella prettamente militare (le sostituzioni dei comandanti più alti in grado sono lì a dimostrarlo…); e, cosa non affatto trascurabile, un logoramento materiale e morale nella popolazione.

Di sicuro in quella che vive a ridosso di un fronte che è rimasto piuttosto stabile nell’autunno – inverno appena trascorso e che, proprio con l’incedere della stagione primaverile, permetterà ai carri armati di Mosca di riprendere ad avanzare senza troppa difficoltà.

Il fallimento della controffensiva annunciata da Zelens’kyj lo scorso anno è negli annali storici. La conquista russa di nuove porzioni di territorio ucraino è tutta da dimostrare. Fatto sta che la preoccupazione per il salto di qualità dalla guerra in Europa alla guerra europea è sempre più manifesta ed evidente.

Mentre Macron si adopera per dare vita ad una coalizione di ultravolenterosi che diano ancora armi su armi a Kiev e, magari, pure truppe della NATO, Scholz frena sulla consegna di altri missili, soprattutto quelli a lunga gittata.

Dalla Polonia, invece, non si comprende bene quanto cautamente, fanno sapere ai russi quello che del resto sanno già: che preparatori ed addestratori dell’Alleanza atlantica sono da tempo in Ucraina, mentre nelle basi sparse nei paesi della UE i piloti si addestrano per pilotare i famosi F16 che, pare, dovrebbero arrivare a luglio.

Troppo tardi e troppo pochi: nemmeno una decina sui quaranta e più promessi. Mosca ha tutto il tempo per fare nuovi piani di invasione e accerchiamento delle truppe di Zelens’kyj e, passo dopo passo, arrivare ad oltrepassare i confini amministrativi dell’intero Donbass nonchè quelli delle altre province occupate, da Kherson a Mariupol.

Non da meno, poi, la questione della Transnistria rimane tutta sul terreno della tattica di guerra: la richista di Tiraspol di un aiuto da parte di Mosca contro la recrudescenza moldava nei confronti della popolazione e delle istituzioni dell’autoproclamatasi repubblica socialista, non resterà inascoltata.

La guerra, quindi, non accenna a diminuire nella sua intensità e preoccupa, in particolare, la concretissima possibilità che Donald Trump vinca le elezioni presidenziali statunitensi e che, come fatto annunciare dal suo amico Orbán, in quel caso per l’Ucraina di aiuti americani non ve ne sarebbero praticamente più. Già oggi lo scontro è piuttosto acceso tra l’amministrazione Biden e il Pentagono sugli sviluppi del conflitto e sullo svuotamento delle riserve nei propri arsenali.

In uno scenario di moltiplicazioni dei focolai di guerra in tutto il mondo (Gaza, Taiwan, guerre africane, instabilità mediorientale, Afghanistan, Corea), la preoccupazione a stelle e strisce è più che legittima. Se non fosse che quasi tutti questi orrorifici teatri di guerra sono anche un prodotto della politica imperialista americana e, quindi, il cinismo la fa ovviamente da padrone: la democrazia liberale di Washington c’entra ben poco con il bisogno di indipendenza dei popoli.

La partita si gioca su altre sponde. Così, mentre le guerre si compenentrano fra loro e mostrano un mosaico tutt’altro che rassicurante, l’unica voce che si leva apertamente contro la loro prosecuzione viene tacciata di essere, in fondo in fondo, da una parte ben precisa: quella del putinismo nel caso della guerra in Ucraina; quella di Hamas nel caso della guerra in Palestina.

Il sempliciottismo banalizzante di certi commentatori e, sia detto absit iniuria verbis, di alcuni comici e vignettisti dimostra che la polarizzazione schematizzante non è scomparsa e che tutto rischia sempre e soltanto di essere letto attraverso le lenti del doversi schierare a tutti i costi.

La pace rimane la terza incomoda: tutti la vogliono a parole, nessuna fa nulla per concretizzarla mediante un’opera di diplomazia che l’Unione Europea avrebbe portuto portare avanti, invece di permettere ai presidenti dei suoi Stati di scavalcare addirittura Stoltenberg nella foga guerrafondaia, invocando l’invio di truppe di terra contro quelle russe.

E l’unica voce che si leva, letteralmente controcorrente, è quella di papa Francesco. In una intervista alla Radio Televisione della Svizzera Italiana, il pontefice scandalizza e regala qualche speranza al tempo stesso: «Credo che è più forte quello che vede la situazione, pensa al popolo e ha il coraggio della bandiera bianca. E negoziare: oggi si può negoziare con l’aiuto delle potenze internazionali. Ci sono, no?».

Francesco non usa le parole a sproposito. Le ha pensate e le ha dette per creare un dibattito internazionale in cui emergano tutte le difficoltà reciproche di proseguire le guerre in corso. L’interpretazione delle dichiarazioni del capo della Chiesa cattolica, come era ovvio che fosse, sono state le più diverse sui rispettivi fronti: gli ucraini rispondo che l’unica bandiera da issare è quella della loro nazione e che ad arrendersi devono essere i russi.

Questi ultimi invece parafrasano ciò che il pontefice afferma, spostando volutamente l’attenzione sull’intero Occidente che utilizzerebbe l’Ucraina per i suoi scopi imperialisti. L’appello sarebbe dunque rivolto a tutti e due i blocchi confliggenti, con un particolare biasimo per quello capitanato dalla NATO e dagli USA, ovviamente. Tra l’enfasi patriottica dei ministri di Kiev e le parole della portavoce del ministero degli esteri russo, Mari Zakharova, pare più convincente quest’ultima analisi.

Ma, se si ascolta molto attentamente il discorso di Francesco, c’è un secondo concetto, oltre quello della “bandiera bianca” che è messo al centro del ragionamento più complessivo: la negoziazione, l’apertura dei canali diplomatici attraverso le potenze internazionali. Il papa si domanda retoricamente: ci sono o no? Ci sono, senza dubbio, ma manca la volontà di trattare. Dall’uno e dall’altro campo.

Probabilmente, all’inizio dell’invasione, in quella fine di febbraio di due anni fa, quando le truppe russe si impegnarono al ritiro dal nord di Kiev, si aprì l’unico vero spiraglio di una trattativa.

Zelens’kyj rimase nella capitale, rischiando obiettivamente di essere catturato dai russi; mentre Putin, mal consigliato dai suoi esperti di intelligence e dai suoi comandanti, pensò che quella fosse una passeggiata di pochi giorni e che, presa la capitale, tutto il paese sarebbe caduto tra le braccia di un governo fantoccio di Mosca.

Come è andata a finire, o per meglio dire, come sarebbe cominciata di lì a poco lo sappiamo. Come proseguirà questa guerra è tutto da dimostrare. Per settecento giorni europei e americani hanno rifornito l’Ucraina di armamenti tra i più moderni sul piano tecnologico. Nonostante questa potenza di fuoco, i russi non sono stati sconfitti, non hanno indietreggiato se non di qualche decina di chilometri da Kharkiv, oltre Bachmut, per poi riprendersela nella logorante battaglia finita qualche mese fa.

La rivolta di Evgenij Prigožin, che ha fatto sperare l’Occidente in un rovesciamento del regime putiniano, è fallita, pur trattandosi del più eclatante fatto di opposizione interna al governo dall’inizio della guerra, mentre la Wagner è stata resa innoqua e incorporata nell’esercito russo.

Il potere politico regge, le elezioni presidenziali vogliono dimostrare che esiste una competizione più o meno democratica tra più candidati (uno è Nikolaj Michajlovič Charitonov, espressione del Partito Comunista della Federazione Russa), il fronte avanza e le armi scarseggiano solo per gli ucraini. Ma le parole del papa vengono, nel migliore dei casi aspramente criticate, nel peggiore addirittura derise e trattate come la voce di un filo-putiniano.

Si diceva dei vignettisti: uno, anche molto bravo, tratteggia le fattezze di Francesco e gli mette al collo la famosa “Z” dei combattenti russi, quella che abbiamo imparato a conoscere vedendola tracciata in bianco sui carri armati che invadevano l’Ucraina da nord, est e sud.

La posizione del papa è però invece molto cristallina: quando ci si accorge che l’unico a vincere è l’orrore delle morti, il sacrificio di tante vite innocenti e che, quindi, a prevalere non è una delle parti in causa, ma la miseria, la fame, la disperazione, può non avere senso appellarsi al dialogo, alla diplomazia?

E’ così davvero assurdo pensare soltanto al bene dei popoli, nonostante possa far male pensare di dover cedere alla violenza scatenata da una parte ma indotta dall’altra con continue provocazioni militari, con allargamenti dei confini della NATO, col vellicamento di pruriti imperialisti tutt’altro che sopiti? Chi prova a ragionare in questi termini è accusato di connivenza col nemico.

Ed il nemico è sempre e soltanto Putin, la Russia, quella parte del mondo che ci è stata mostrata come estranea alla nostra civiltà: alle nostre radici occidentali che sarebbero le uniche degne di considerazione, perché affonderebbero nella democrazia ellenica, nel diritto romano, nella libertà rivoluzionaria francese ed americana. Quello che ci è stato insegnato è il considerare noi stessi sempre e soltanto dalla parte giusta, gli altri sempre e soltanto da quella sbagliata.

Una divisione perfetta del mondo, tipica della Guerra fredda, funzionale al capitalismo americano, al militarismo atlantico, alla voglia di espansionismo che gli Stati Uniti ispirano quando parlano di pacificazione globale entro la rigidità del liberismo moderno. Il vero accidente per Washington è il multipolarismo. Un ritorno all’unipolarismo post-caduta del Muro di Berlino sarebbe l’ideale per una economia americana in affanno.

La guerra in Ucraina è parte di questa occasione e, per questo, le pur interessate parole di Maria Zacharova, non colpiscono molto lontano il bersaglio quando interpretano i pensieri del pontefice in funzione critica nei confronti dell’Occidente europeo e atlantico-americano. Ma il papa, anzitutto, biasima la continuazione delle guerre. Su questo terreno lo possiamo seguire senza se e senza ma. Su altri, obietttivamente, saremmo molto critici e distanti.

Ma in questo modo si deve pensare, agire: unire partendo dalle condivisioni per far cessare i conflitti che si moltiplicano e che prospettano al pianeta, all’umanità e all’animalità un futuro diastroso, fatto di interessi privati, di particolarismi nazionali, di egoismi di casta, di protezionismi piuttosto che di solidarietà internazionale, di mutualismo, di vicendevole scambio e sostegno.

Se muoversi in questa direzione è essere putiniani, parafrando impropriamente Gramsci, accettiamo l’accusa.

MARCO SFERINI

14 marzo 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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