Il “biennio pandemico” e la lotta per l’egemonia sanitaria

Sostenevano gli antichi che la «Natura non facit saltus» e siccome i miracoli sono sempre un “salto” di qualità inaspettato, un travalicamento delle condizioni normali di sviluppo di un...

Sostenevano gli antichi che la «Natura non facit saltus» e siccome i miracoli sono sempre un “salto” di qualità inaspettato, un travalicamento delle condizioni normali di sviluppo di un fenomeno più o meno negativo o positivo, quindi una manifestazione suggestiva che attribuiamo a qualcuno o a qualcosa per farci sopportare meglio il dolore o per giustificare ciò che ancora non si comprende scientificamente e razionalmente, è obiettivamente molto difficile pensare che solo il 2020 possa essere considerato l’anno della pandemia.

E’ molto più probabile che in futuro, quando la comparsa del Covid-19 e la sua diffusione planetaria occuperanno una pagina di ogni atlante storico mondiale, il titolo sarà: “2020-2021, il biennio pandemico“. Più che giustamente ci siamo sorpresi un po’ tutti nel constatare che l’ars medica sia stata in grado di trovare più di un rimedio vaccinale al nuovo coronavirus in meno di un anno. E’ probabile che l’alacrità degli scienziati sia stata sollecitata, oltre che dalla rincorsa al contenimento del patogeno, anche da una spinta concorrenziale tra le diverse case farmaceutiche sostenute dagli Stati e dagli agglomerati associativi dei medesimi, per assicurarsi il primato della diffusione, la superiorità scientifica e finanche un posto nella storia.

Il mercato dei medicinali e i governi di Russia, Stati Uniti, israele, Germania, Regno Unito e Cina hanno trovato un nuovo terreno di confronto e scontro: il primo profittando dell’emergenza sanitaria, i secondi per fronteggiarsi in una sorta di guerra economica, di prestigio politico e di ridefinizione degli equilibri internazionali che, inevitabilmente, senza bisogno di alcuna predizione o divinazione, saranno mutati rispetto al 2019. Se non si può parlare di “rivoluzione” del Covid-19 sul piano meramente sociale, almeno non ancora, si può però affermare che l’impatto della pandemia sui rapporti interni agli Stati e nelle relazioni esterne c’è stato e si protrarrà a lungo.

L’enorme ineguale distribuzione dei vaccini è un fattore certamente ascrivibile alla natura del sistema capitalistico: la diseguaglianza strutturale. Ma è anche una fotografia del tipo di contrasto che oggi si disegna globalmente tra i continenti: le differenze rispetto al recente passato sono enormi se solo si confrontano i bipolarismi est-ovest, retaggio della Guerra fredda, con il multipolarismo attuale che vede la Russia, la Cina, l’Europa e gli Stati Uniti impegnati in un confronto aperto per giganteggiare non solo nel vecchio ambito, tipico dell’imperialismo, militare e geopolitico, ma di più ancora nei settori strategici di una economia che si deve piegare ad ogni veloce fase di sviluppo della pandemia.

La velocità è il crisma con cui si certificano i successi di una imprenditoria che ha, in larghissima parte, dovuto convertire le proprie storiche produzioni, adeguandosi allo stato di cose presente, ad uno stravolgimento repentino che ha spiazzato ogni settore commerciale e costretto le grandi associazioni mondiali e transnazionali di protezione e tutela del capitalismo a considerare una serie di misure che venivano invocate dalle forze più progressiste del pianeta.

La rivalutazione del pubblico rispetto al privato, quanto meno nella riorganizzazione dei settori chiave per la tutela della salute di intere popolazioni, sta facendo il suo reingresso in un dibattito antico proprio grazie alla prepotenza con cui il virus ha indotto grandi potenze e piccoli Stati a limitare le pretese padronali che esigevano un punto di vista esclusivamente proprietario nella gestione della pandemia, a tutto discapito del mondo del lavoro, la cui essenzialità è risultata tanto più necessaria allo sforzo produttivo quanto più crescevano i numeri dei contagi.

La velocità di espansione del virus, i continui cambiamenti tattici e l’impossibilità di mettere in campo una strategia di lungo termine, almeno nel primo semestre del 2020, hanno forzato la mano ad una ragion politica che ha dovuto fare i conti con la primarietà della salute rispetto alla secondarietà del profitto. Le rivendicazioni di Confindustria e delle associazioni di categoria dei padroni di mezzo mondo sono risultate stonate, ciniche e fuori luogo persino per i più accaniti sostenitori del libero mercato e della sua connotazione modernamente liberista.

Soprattutto a fronte dei dati inequivocabili sull’aumento di capitali e di valore per le aziende che li detengono: si tratta di multinazionali che, proprio in questi giorni, annunciano fusioni che polarizzano fette già enormi del mercato dell’automobile. La nascita di “Stellantis“, il nuovo intergruppo presieduto da John Elkann con l’ausilio di Mike Manley (FCA, quindi gruppo FIAT-Chrysler) e di Carlos Tavares (PCA, quindi Gruppo Renault), con un fatturato annuo di 182 miliardi di euro e quasi 9 milioni di automobili vendute, rimescola le carte in una grande sfida mondiale.

Il capitalismo, dunque, risente della crisi pandemica ma, forse, sarebbe più corretto affermare che opera come co-agente del virus e porta la crisi stessa verso nuclei sociali che sorreggono, con la loro forza-lavoro, l’intero sistema del profitto e delle merci. Per questo le diseguaglianze aumentano esponenzialmente, poiché il Covid-19 è democratico nell’aggredire chiunque gli capiti tra le grinfie, ma il punto di caduta sta proprio nella risposta “di classe” che si da al virus: i paesi ricchi e in via di espansione si assicurano così tante dosi di vaccini da poterne somministrare a tutta la popolazione ripetutamente, mentre altre parti del pianeta sono costrette ad elemosinarle, indebitandosi o legandosi politicamente a scelte che non avrebbero fatto.

In fondo è una specie di imperialismo anche questo: guerre, debiti, favori da restituire. Sono tutte forme di dipendenza che si vengono a creare e a cui è difficile sfuggire.

Il biennio pandemico, pertanto, cambierà il mondo e lo sta già facendo, mentre noi veniamo indotti a pensare che non c’è niente di più straordinario che “tornare alla normalità“. Con qualche ritocco a favore dei sempre più ricchi: non lamentatevi… E’ la “normalità“.

MARCO SFERINI

5 gennaio 2021

Foto di Ulrike Leone da Pixabay

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