Le dichiarazioni programmatiche del presidente Meloni non danno adito a dubbi sulle scelte internazionali del governo. Niente di nuovo. Meloni potrebbe, al punto in cui governi di centro-destra e centro-centro sinistra hanno portato la collocazione internazionale dell’Italia, non fare assolutamente nulla e gestire l’agenda esistente dalla nave nera che comanda.

Perché dalla crisi del mondo globalizzato, a quella climatica-ambientale, dal respingimento dei migranti nell’inferno libico, alla guerra senza mai citare, alla Camera, la parola pace, dal condizionamento dei mercati finanziari, alle rendite e ai processi neoliberisti che massacrano il cosiddetto «popolo» caro alla «patriota», tutto può procedere con i programmi dei governi precedenti, Draghi e non solo. Perché c’è un vento che, dispiegate le vele, muove la nave nera che comanda: è il vento atlantico.

Non sarà un caso che il primo suo atto internazionale sia stata la telefonata a Biden, dopo la scontata fiducia, per cercare – alla faccia della sovranità – la sua approvazione. Il discorso è stato chiaro: siamo fedeli alla Nato, ai valori atlantici e alla Ue. Una fede di lungo corso, che deriva dal Msi (poi An, ora Fd’I) per il quale l’atlantismo della guerra fredda essendo anticomunista e pure attivo e coperto nella strategia della tensione e nell’epoca dello stragismo nero – che Meloni dimentica -, era il posto al sole ideale.

Nato e Ue, uno strabismo, come se fossero la stessa cosa e non il primo la contraddizione e la negazione dell’altro. E vorremmo davvero capire – con l’immagine davanti del factotum Crosetto in tuta mimetica a Kabul – quali siano davvero questi valori atlantici.

Quei «valori» altro non sono che le guerre: quella di «vendetta per l’11 settembre non per la democrazia afghana» – così l’ha definita lo stesso Biden nel disastroso ritiro – durata venti anni in Afghanistan con dispendio di costi spaventosi e di vite umane; la guerra in Libia, con la devastazione di un paese ora alla mercé di bande armate e in guerra civile; con i «bombardamenti umanitari» sulla ex Jugoslavia nell’Europa del sudest, con i Balcani rimasti ingovernabili; e in Siria e in Iraq…Chi parla di valori atlantici deve dire se rivendica questi conflitti e se ricorda che per ognuno sul campo sono rimaste centinaia di migliaia di vittime civili e crimini contro l’umanità che nessuna Corte internazionale perseguirà mai.

Poi, naturalmente c’è la meloniana fedeltà all’Ue. Ma a quale Europa? Quella delle nazioni, dove andremo «a testa alta» sempre come nazione. Quando, rispetto alla crisi profonda derivata proprio dalla preponderanza di due nazioni come Germania e Francia, e ora dalla scesa in campo di un nazionalismo, anche quello atlantista, di estrema destra a Est che insidia i patti europei, bisognerebbe alzare la testa sì, ma come rappresentanza degli interessi sociali sovranazionali, non per chiedere dividendi da nazione.

Un altro nazionalismo sarebbe la goccia divisiva che fa traboccare il vaso, sull’energia come sul riarmo e sulla stessa costituzione europea. Serve invece una convinta integrazione sovra-nazionale per dare vigore a quel che resta di un’Europa divisa che ormai contrappone la Francia a una Germania tornata a una pericolosa supremazia, con il suo massiccio riarmo e il suo investimento autonomo sull’energia.

«Non abbiamo bisogno di vigilanza», ribadisce piccata Meloni. Con chi ce l’ha? Con i modesti avvisi francesi, o con lo sgomento provato negli Usa per la sua elezione – Biden ha ripetuto: «Visto quello che è successo in Italia », preoccupato per le elezioni di midterm? Oppure parla a difesa dei sovranismi dell’Est, come per la sodale Polonia, che sullo stato di diritto rifiutano la giusta vigilanza di Bruxelles.

E c’è la guerra in Ucraina che aiuta. Vento in poppa anche qui. Grazie all’aggressione criminale di Putin – le leadership occidentali e l’improbabile Stoltenberg dovrebbero davvero ringraziarlo pubblicamente – lo spettro della Nato allargata è stato rievocato e agisce ormai direttamente sul campo di battaglia in un conflitto per procura che vede su terra ucraìna ed europea il confronto armato tra Russia e Nato-Usa, dopo la dissipazione di una stagione diplomatica che provava a fermare un conflitto nato nel 2014.

Finché c’è guerra per questo governo di estrema destra c’è speranza. Su questo si misura una opposizione di sinistra. Certo la commistione nel governo tra putiniani e atlantisti non promette niente di buono.

Ma a governare sarà un equilibrio che trova comunque nella continuazione della guerra il suo alimento. Ieri al Senato Meloni ha recuperato a parole la pace «scordata» – che volete che sia? – per ribadire che solo l’aiuto militare all’aggredito la avvicinerebbe perché ferma l’aggressore.

Ma vale per tutte le aggressioni e le occupazioni militari o il resto del mondo in guerra non conta per Meloni? Allora, se quello è il «solo modo», perché non inviare armi alla resistenza curda, i cui leader invece vengono consegnati a Erdogan nello scambio per l’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato?

Oppure alla resistenza palestinese, o dobbiamo sempre vedere minorenni con le pietre e le fionde uccisi a decine mentre ogni giorno si battono contro l’esercito occupante israeliano, tra i più armati della terra? E sì che anche lì è ben evidente chi è l’aggredito e l’aggressore.

Tranquilli. Meloni naviga a gonfie vele. Proprio ora che sull’Ucraina, tra finte tregue militari, escalation, minacce atomiche e sporche, raid russi terroristici, stragi di civili e uso ucraino di armi di difesa sempre più usate come offesa in terra russa, si torna a parlare di dialogo possibile, di cessare il fuoco, non di alimentarlo.

Ne parlano alcuni governi europei e i democratici Usa, si interrogano insospettabili grandi giornali italiani, e da tempo il comitato editoriale del New York Times che chiede a Biden: «Dove va a finire questa guerra se non nella distruzione dell’Europa?»; soprattutto lo chiedono i pacifisti che riprendono le piazze con le bandiere arcobaleno «inutili» per la «patriota», che se diventano milioni, stia sicura che peseranno anche sulle sue scelte; e lo chiede papa Bergoglio, che grida contro i produttori e mercanti di armi e per il disarmo. Entrambi, a quanto pare, inascoltati.

TOMMASO DI FRANCESCO

da il manifesto.it

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