Una impossibile nuova e moderna “etica” del capitalismo

Non è la prima volta che su quotidiani nazionali come “La Stampa” (nello specifico sul suo inserto settimanale del sabato “Specchio“) compaiono riflessioni ben articolate sugli inciampi della modernità...

Non è la prima volta che su quotidiani nazionali come “La Stampa” (nello specifico sul suo inserto settimanale del sabato “Specchio“) compaiono riflessioni ben articolate sugli inciampi della modernità capitalistica e sulla sua spasmodica ricerca di profitto che, a ben vedere, è comunque uno dei tratti fondanti, e quindi costanti per la sua stessa sopravvivenza, del sistema delle merci e dell’accumulazione di enormi ricchezze in sempre minori mani.

Se non si può pretendere, da quello che un tempo sarebbe giustamente stato definito un “giornale padronale“, una abiura senza se e senza ma del capitale, se ne può quanto meno apprezzare lo sforzo interpretativo e critico, la necessità di ragionare su tutta una serie di oggettivi, quindi lapalissianamente evidenti, inasprimenti di contrasti tra l’esponenziale finanziarizzazione del sistema e, di contro, l’immiserimento globale di miliardi di persone che sono, oltre tutto, circondate da un ecosistema depredato proprio in nome della profittualità senza alcun scrupolo, senza alcuna etica.

E’ un errore piuttosto comune quello di voler attribuire al mondo delle imprese, ai capitalisti, un diritto alla morale nel loro contesto antisociale, nel loro ruolo di classe. Se Luciano Gallino ispira a Guido Maria Brera, quasi suggerisce, una distinzione tra “profitto buono” e “profitto cattivo“, in termini del tutto descrittivi del processo di produzione attuale e degli effetti che ha e può avere su interi popoli, su grandi poli economici continentali, altrettanto non si può, fare se si pretende di tornare ad una categorizzazione novecentesca tra “padrone buono” e “padrone cattivo“.

Semplicemente perché non esiste un'”etica del capitalismo“, ma soltanto una serie di effetti che l’economia di mercato riversa sui proprietari dei mezzi di produzione e delle grandi riserve finanziarie e sulla moltitudine di salariati che sono – come scriveva Rosa Luxemburg – «…i milioni del cui lavoro vive l’intera società». Semmai si può rinverdire qualche lettura weberiana sullo “spirito del capitalismo” e sull’etica calvinista, passando per la critica di Schumpeter (più economicista) o quella di Groethuysen (più storico-politica), per accorgersi con non troppa difficoltà che tutte le teorie su una origine “etica” del capitale sono castelli di carta, per il semplice fatto che ci troviamo davanti ad un processo dialettico che prende avvio da concreti interessi materiali che sono, a loro volta, condizionati dai rapporti di forza tra le classi sociali.

La discussione sul profitto buono che crea lavoro e il profitto cattivo che ha il solo compito di estrarre il valore dalla forza-lavoro umana, dallo sfruttamento della natura e degli altri esseri viventi, la si può sostenere purtroppo dentro una cornice – non solamente accademica – in cui non si punta politicamente al superamento del capitalismo, ma alla sua correggibilità, quindi ad individuare come far sì che lo Stato possa fronteggiare il potere economico delle grandi industrie, dei grandi agglomerati produttivi che inglobano sempre più fette di mercato da contendersi con altrettanti concorrenti su scala globale-

Il profitto non è mai buono, se si considerano gli effetti che ne derivano. L’esistenza del profitto significa esistenza del capitalismo e bisogna decidersi: se si ritiene incompatibile il capitale con la piena espressione della vita sul pianeta (umana, animale, vegetale, ambientale in senso lato), non si può cercare una via d’uscita da questa contraddizione senza mettere in discussione l’intero sistema, evitando di trovare delle scorciatoie momentanee che finiscono per essere dei comodi alibi per imbellettare un poco la mostruosità divoratrice e cannibalizzante di un capitalismo che erode i diritti sociali, quelli civili ed è sempre pronto ad aprirsi nuovi spazi da occupare a discapito della stessa sopravvivenza della specie umana.

La differenza spiegata bene dal professor Gallino, tra ritorno sociale dalla formazione e accumulazione del profitto e mero fine estrattivo, ha un senso se rimane nella descrizione dell’attualità del liberismo, della forma più aggressiva che ha raggiunto sino ad oggi il sistema delle merci.

La politica deve avere un compito diverso: acquisire studi, conoscenze e critiche anche compatibiliste con una tollerabilità del capitale, facendo tesoro di ogni analisi e arrivando alla conclusione che solo l’anticapitalismo è lo spazio sociale ed organizzativo per affrontare quelle lotte che gli economisti non possono realizzare al posto delle grandi masse di sfruttati che hanno smarrito una internazionale della coscienza critica (e di classe) necessaria per solidarizzare una tensione veramente strutturale capace di fare fronte – (anche) al posto della potenza statale individuata da Guido Maria Brera – alle prossime mosse del liberismo globalizzante.

Il divario così grande tra enormi ricchezze in mano a poche decine di ipermiliardiari e enormi povertà distribuite su miliardi di persone, è talmente oggettivo da non poter essere più fingere che sia un accidente, qualcosa di temporaneo che sarà riassorbito da quella “crescita economica” che viene sempre chiamata in causa senza sapere bene a cosa ci si riferisca. Interessante, a questo punto, sarebbe poter discutere della percentuale di crisi del capitalismo su scala mondiale: se la sua forza espansiva stia progressivamente aumentando o se invece ci si trovi, proprio nel mezzo della crisi pandemica, ad un primo segnale di rallentamento della globalizzazione.

L’altra ipotesi potrebbe riguardare invece una stabilizzazione delle condizioni dell’economia mondiale in funzione di una entropizzazione del sistema, quindi una sua espansione – per così dire – equivalente nei vari centri di polarizzazione delle grandi ricchezze prodotte dentro il contesto statale di entità sempre più enormi, ma pure sempre più in acerrima competizione: USA, Unione Europea, Cina, Russia, per citare quelli che sono i punti di riferimento cui guardare per comprendere questa veloce fase di mutamento socio-antropologico-economico.

Nel suo ultimo libro “Cronache capitaliste“, David Harvey scrive: «A un certo punto l’espansione capitalistica raggiunge un limite. Le eccedenze di capitale si accumulano in una particolare parte del mondo, spesso accompagnate da eccedenze di lavoro. Queste eccedenze di capitale hanno bisogno di uno sfogo che ne permetta l’impiego redditizio. Dove possono andare? Una risposta è lo sviluppo di colonie. Un’altra è l’esportazione di capitale (e talvolta anche di lavoro vivo) in qualche altra parte del mondo dove il capitale deve ancora svilupparsi».

Qui Harvey descrive ciò che definisce “spatial fix“, ossia la risposta ad una accumulazione dei capitali che è e rimane tutt’oggi l’estrema punta del naturale processo liberista di accumulazione indiscriminata di profitti. Né buoni e né cattivi: perché la distinzione di Gallino – come abbiamo detto – si ferma sul limitare dell’analisi economica e non può entrare nel merito di una lotta politica anticapitalista che non può non considerare il profitto totalmente inadeguato allo sviluppo umano, animale e ambientale del pianeta in un futuro vicinissimo, se vogliamo continuare a sopravvivere nell’unità del cosiddetto “villaggio globale“, di Gaia.

La correggibilità del capitalismo è più utopica del socialismo di un tempo e di quello che ancora ricerchiamo per le generazioni a venire. Non è possibile limitare economicamente e politicamente l’espansione planetaria del mercato, quindi dello sfruttamento degli esseri umani su sé stessi, sugli animali e sulla natura. Si potrà tentare un ritorno ad un keynesismo ormai ampiamente sorpassato dalla vittoria della scuola di Milton Friedman e dei “Chicago boys“, ma non si risolveranno i problemi che si vanno cumulando e che reclamano una sovversione a centottanta gradi del sistema.

O si abolisce la proprietà privata dei mezzi di produzione e si va oltre l’accumulazione privata dei capitali stessi, oppure si ripeteranno errori già visti e si faranno finte rivoluzioni che sviliranno le lotte più efficaci e più sentite, separandole in contenuti singoli e lasciando che i loro sostenitori pensino di battersi ognuno per il bene comune, mentre la regolamentazione del sistema rimarrà nelle mani di coloro che ci stanno portando tutti quanti verso una catastrofe irreversibile.

Ho già scritto molte volte che vedo solo due soluzioni a tutto questo: o saranno gli esseri umani, con la loro intelligenza, a mettersi al servizio di una lotta per capovolgere il mondo attuale, rovesciare il capitalismo e farla finita una volta per tutte con la proprietà privata; oppure sarà la natura a fare il suo inevitabile, che ci parrà magari crudele e tremendo, ma che sarà l’unica possibilità per tanti altri miliardi di esseri viventi di vivere su questa terra senza più essere divorati dalle fauci del profitto umano, da una economia che distrugge i mondi e non li ha mai resi, né mai li renderà degni di essere veramente vissuti.

MARCO SFERINI

21 novembre 2021

foto: screenshot

categorie
Marco Sferini

altri articoli