Sette e non più sette. La decisione di Mattarella

Il Presidente della Repubblica ha scelto una scuola per comunicare, fuori dai palazzi istituzionali ma dentro una formalità apprezzabile mai venuta meno, che non è disponibile a ricoprire un...

Il Presidente della Repubblica ha scelto una scuola per comunicare, fuori dai palazzi istituzionali ma dentro una formalità apprezzabile mai venuta meno, che non è disponibile a ricoprire un secondo mandato come Capo dello Stato. Ufficialmente, sostiene Mattarella, è la veneranda età che non glielo permette.

C’è pure da credergli, perché gli ultimi tre anni sono stati tutt’altro che facili: tra governo sovranisti, rimpasti, maggioranze che diventano minoranze e opposizioni che diventano forze di governo. E tutto questo dentro la pandemia che ha esasperato il Paese, ridotto sul lastrico milioni di italiani, accorciato le speranze di superare le difficoltà economiche per tanti giovani che vedevano un po’ di luce in fondo al tunnel della precarietà, creato nuovi disagi e nuovi pauperismi.

Chiunque, anche se più giovane, seppure già entro l’età contemplata dalla Costituzione per poter accedere alla carica presidenziale, sarebbe scoraggiato, quanto meno stanco nell’affrontare un compito così impegnativo. E’ dunque presumibile che il Capo dello Stato abbia detto, dica e dirà di no per motivi anche del tutto personali.

Ma è lecito altresì pensare che Mattarella voglia lanciare un messaggio che va valorizzato: il ripristino della consuetudine, di quella norma non scritta nella Carta del ’48 che prevede un solo settennato per ogni presidente. Non c’è nulla nella Costituzione che consenta, ma nemmeno che proibisca ad un cittadino che è già salito al Quirinale per volontà del Parlamento, di svolgere un secondo e persino un terzo mandato. Ma esiste la regola del rispetto di una forma che diviene sostanza, che si sublima proprio nel non forzare il dettame democratico.

Recita la nostra Costituzione molto algidamente: «Il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni» (articolo 85). Se si vanno a studiare gli atti dell’Assemblea Costituente, si scopre che la discussione sulla figura del Capo dello Stato non riguardò tanto la durata del suo mandato e la ripetibilità del medesimo, quanto semmai i poteri che dovevano essergli attribuiti e le modalità della sua elezione. La fine della monarchia sabauda era ancora vicina, così come quella del fascismo e lo scontro più duro riguardò proprio il tipo di Repubblica che si voleva creare: parlamentare, semipresidenziale alla francese o presidenziale in stile americano?

Il timore giustificato e pienamente comprensibile, nell’ipotizzare una figura forte nell’esercizio delle funzioni di Presidente della Repubblica, era una ricaduta del Paese in situzioni che avrebbero fatto scemare la democrazia appena nata, rischiando il ritorno ad un regime autoritario. Per questo la discussione

Come sappiamo, alla fine si decise di dare all’Italia una forma di Stato dove nessun potere da solo potesse esistere e dove le decisioni fossero frutto di una collaborazione tra le diverse istituzioni. Alla Presidenza della Repubblica toccò il compito di essere l’arbitro della situzione, l’alta mediazione tra le parti, l’autorità massima rappresentante l’unità della nazione senza il potere di governarla, ma di vegliare sul rispetto della Costituzione da parte del Parlamento, del Governo e della Magistratura, nonché delle forze armate: ed infatti il Presdiente presiede il CSM ed è anche il capo di queste ultime.

La provvisorietà dell’incarico presidenziale, dunque, è stata fin dall’inizio tutta racchiusa anche temporalmente in quei sette anni. Non otto o nove. Ma sette. Senza ulteriori specificazioni che, nelle intenzioni dei Padri costituenti, avrebbero limitato la libertà di scelta tanto del Parlamento quanto della popolazione. Indirettamente per quest’ultima, perché proprio sull’elezione diretta del Presidente si giocò un dibattito acceso nell’Assemblea presieduta da Terracini e nella “Commissione dei 75” presieduta dall’onorevole Ruini.

Del resto, non è solo la Presidenza della Repubblica a fare gola a molti per rafforzare una tendenza più autocratica che preveda di contro una riduzione progressiva dei poteri e della centralità delle Camere rispetto all’equilibrio attuale che – nella storia di una provvisorietà democratica quasi costante – viene mantenuto nonostante gli attacchi tanto da destra quando dal centrosinistra: i referendum per abolire sostanzialmente il Senato o i sogni presidenzialisti dei sovranisti e dei neofascisti non sono novità, fulmini a ciel sereno.

Fanno parte di un lungo cammino di riaffermazione continua di valori democratici che non garantiscono la piena applicazione della Costituzione, ma se non altro fanno parte di quel freno messo a chi vorrebbe fare dell’Italia uno Stato sempre più somigliante agli USA da un lato o alla Francia dall’altro.

Sergio Mattarella, le cui scelte, indicazioni e messaggi alle Camere possono essere ovviamente criticati e stigmatizzati, ha svolto il suo mandato nel rispetto dei poteri affidatigli dal Parlamento e lo ha fatto entro la cornice costituzionale; rimanendo, soprattutto in questi ultimi tre anni di accelerazione sovranista e crisi pandemica, un punto di equilibrio nonostante gli sperticati attacchi ricevuti, tra chi lo voleva mettere in stato di accusa e che lo voleva invece preservare come garante democratico.

Quest’ultima dichiarazione sulla sua non ricandidabilità al Quirinale, va apprezzata perché restituisce alla Repubblica – nella forma e nella sostanza – una consolidata consuetudine che ritorna ad essere un principio irrinunciabile per il mantenimento della democrazia rappresentativa (formale e borghese quanto si vuole, ma necessaria): il potere non deve rimanere troppo a lungo nelle mani di una persona, anche se questa deve condividerlo ed interagire con altri organismi dello Stato.

Il messaggio di Mattarella è chiaro: è un atto politico costituzionale, laicamente repubblicano. Un gesto che non può che essere valutato positivamente mentre si apre già la partita delle strumentalizzazioni delle dichiarazioni, dei nomi, delle piccole tattiche dentro altrettanto piccole strategie per scavalcare il 2022, arrivare alla scadenza naturale della legislatura.

Quella del Quirinale resta una partita tutta aperta, dal risultato affatto scontato e, per questo, va partecipata il più possibile anche se indirattamente da tutti i cittadini. La consapevolezza è cultura individuale e anche sociale e non può che far bene ad una Italia povera economicamente ma, in particolare, civicamente.

MARCO SFERINI

20 maggio 2021

foto tratta da Wikipedia

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