Battiato, il padrone della voce

Musica. Addio all’artista siciliano - morto ieri a 76 anni dopo una lunga malattia - che ha costruito in cinquant'anni di carriera un percorso unico nel panorama italiano

Coltissimo e avveniristico, Franco Battiato – morto ieri a 76 anni dopo una lunga malattia – non lo è stato solo sul versante più schiettamente sperimentale, utilizzando forme e media in maniera poliedrica. Il suo universo musicale è un Aleph in cui si ricongiungono «mondi lontanissimi»: con lui, il cantautore si libera dell’obbligatorio equipaggiamento «voce e chitarra» e dei vincoli di sobrietà sonora imposti dal primato della parola. Fender a tracolla, circuiti e watt in abbondanza, un «soffio al cuore di natura elettrica» che impone di interrogarsi sullo stesso significato del termine «cantautore». E di tanti altri.

Dapprima vissuta come un’alternanza, quella tra sperimentazione e musica leggera diventa nelle sue mani intersezione, scambio continuo, prassi musicale modernissima. Franco Battiato è colui il quale trascorre la serata con Stockhausen dopo un pomeriggio di arrangiamenti pop su commissione; in anonimato, senza crediti ufficiali — come il giovane Morricone — perché l’élite della ricezione non urli al tradimento. Ciò che la stessa aristocrazia finge di non sapere è che proprio dagli introiti della musica mainstream si finanzia gran parte di quella «colta». È la realpolitik discografica, oltre alla voglia di misurarsi con un nuovo e più ampio pubblico, a traghettare Franco — per mano del produttore Angelo Carrara — dalla Ricordi alla Emi- La Voce del Padrone.

Il 1979 è l’anno della svolta: L’era del cinghiale bianco è acclamato dalla critica, pur stentando al botteghino (quel Magic Shop in cui si commercializza l’arte ormai deprivata dell’aura che invece inizia ad aleggiare attorno alla figura del Maestro siciliano). Il dualismo borghesia-proletariato tipico di quel periodo si riflette nell’avvicendarsi di alto e basso, senza peraltro riuscire a discernere con sicurezza tra l’uno e l’altro. Così è per Patriots (1980), che tratteggia la new wave italiana mentre la dileggia, così è per l’album successivo, sua vera consacrazione: un titolo in cui convergono satira discografica, citazioni di Stanisław Lem e letture di Gurdjeff, per il quale La Voce del Padrone altro non è che la nostra coscienza.

Stavolta salta anche il banco: Battiato è il primo italiano a superare il milione di copie con un album. La voce del padrone ringrazia, senza accorgersi che l’artista le ha imposto il proprio copione. Orecchiabile, cantabile, ballabile quanto si vuole, ma con una densità di riferimenti compositivi e letterari che vanno ben oltre il lessico canzonettistico. Certo, ci si concede il lusso del refrain, ma con un’ironia dissacrante che trascina stile e linguaggio verso nuovi livelli narrativi. Il pop di Battiato è postmodernismo puro, Minima Immoralia. Né il successo commerciale (L’arca di Noè, nel 1982, è seconda solo a Thriller) né l’edonismo degli anni Ottanta scalfiscono la serietà con cui conduce la sua ricerca musicale, indipendentemente dalla natura «colta» o «leggera» della densissima produzione.

Orizzonti perduti (1983), Mondi Lontanissimi (1985), Fisiognomica (1988), tracciano una linea sempre più chiara, fatta di orchestrazioni classicheggianti, introspezione, elaborazione della linea melodica (che si allontana sempre di più dai canoni dell’orecchiabilità).

All’alba dei Novanta, mentre pubblico e industria discografica manifestano l’esigenza di un ritorno alla rassicurante standardizzazione, la difficoltà di classificare un musicista come Battiato rasenta l’inadeguatezza, esplicitata nel titolo Come un cammello in una grondaia (1991). Ogni disco è un passo in più verso una sintesi capace di coniugare esotismo e mistica del quotidiano, celebrando altrettante connessioni in ambito musicale, come dimostra la world music in veste barocca del Caffè de la Paix (1993).

Poi l’incontro con Sgalambro, che lascia Battiato libero di concentrarsi sul suono, attraverso progetti quali L’ombrello e la macchina da cucire, L’imboscata, Gommalacca, Ferro battuto, Dieci stratagemmi, che cambiano registro con la stessa velocità con cui si avvicendano le nuove voci del padrone (dopo la Emi, Mercury e Sony).

Difficile da incasellare dall’esterno, è lo stesso Maestro a posizionarsi nel contesto musicale del suo tempo, spezzando la sua «amata solitudine» con periodiche collaborazioni, e rileggendo con una strana trilogia, Fleurs, il repertorio cantautorale.

E forse è proprio in questi episodi da interprete che si apprezza maggiormente la qualità della sua voce, ispirata alla stessa universalità cui attinge la scrittura. Una voce che, anzi, è essa stessa scrittura, e che ci invita a ripensare al valore sonoro, e non solo semantico, della parola: «Adattare un testo alla musica non è sempre possibile, finché non si fa ricorso a quel genere di frasi che hanno solo una funzione sonora. Se si prova allora ad ascoltare e non a leggere, diventa chiaro il senso di quella parola, il perché di quella e non di un’altra. Per capire bisogna ascoltare, serve animo sgombro: abbandonarsi, immergersi. E chi pretende di sapere già rimane sordo».

La stessa voce, ovviamente, è stata spesso reclamata da quella classe politica la cui involuzione non è sfuggita all’autore di Povera patria. Pur partendo dall’idea di un’arte non necessariamente politicizzata, Franco Battiato non ha mancato di schierarsi su posizioni progressiste, mettendosi in gioco in prima persona per una breve stagione da assessore per la Regione Sicilia.

Difficile da incasellare, anche lì, ma sempre padrone della sua voce.

FRANCESCO BRUSCO

da il manifesto.it

foto: screenshot

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