Piccola incursione storica sui “pretesti” per scatenare le guerre

Quasi tutte le guerre hanno bisogno di un pretesto, detto altrimenti “casus belli“, per poter scoppiare e dispiegare il loro carico di morte. Sono davvero pochi i conflitti che...

Quasi tutte le guerre hanno bisogno di un pretesto, detto altrimenti “casus belli“, per poter scoppiare e dispiegare il loro carico di morte. Sono davvero pochi i conflitti che hanno divampato a causa di improvvisi e repentini motivi sorti quasi a prescindere dalle condizioni storicamente date tra due popoli o due Stati.

Diverso è il discorso che riguarda le rivoluzioni che, pur portandosi dietro il benevolo pregiudizio di eventi scoppiati dall’oggi al domani, sono invece il frutto maturo di una serie di concause molto articolate e spesso nemmeno del tutto coincidenti fra loro.

Tanto è vero che i processi di rottura che cambiano radicalmente il quadro economico, sociale e politico di una nazione o di un continente, finiscono con il rinsaldarsi mediante una serie di compromessi che mettono fine al precedente stato di cose e aprono nuovi scenari davvero globali.

Le guerre affidate solo a sé stesse, mosse da tensioni di carattere geopolitico e, quindi, con un substrato prettamente economico (e finanziario), a differenza delle rivoluzioni sono davvero la continuazione dell’azione di governo con mezzi tutt’altro che discorsivi, dialettici, anche se portati avanti con perentorietà e durezza.

Quando si raggiunge una situazione di stallo, qualcuno deve forzare nella direzione in cui si prefigge di avanzare per ottenere quanto vuole e pretende, a scapito – si intende – del suo diretto competitore. Per questo i pretesti sono ottime leve e grimaldelli con sui dare il via a conflitti che, col tempo, si sa sia come sono iniziati e sia come sono andati tristemente a finire.

Dalle guerre di indipendenza italiane a quella franco-prussiana del 1871, passando per le guerre balcaniche e il declino ottomano, venendo fino ai giorni nostri con un ‘900 attraversato dalla tragedia della Prima e della Seconda guerra mondiale, i pretesti non sono mai mancati per dare fuoco alla miccia e far scoppiare le contese sul campo di battaglia.

Sarajevo e Gleiwitz (che oggi si chiama Gliwice) sono lì a dimostrarlo. Ma prima dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando e del finto attacco polacco alla stazione radio tedesca nella Slesia rimasta alla Germania dopo il Trattato di Versailles, avevano ben sedimentato e maturato le condizioni prime affinché Serbia e Austria-Ungheria da un lato, Germania e resto del mondo dall’altro, si affrontassero per affermare ciascuna i propri interessi economici e, insieme, una visione di società cui avrebbero dovuto uniformarsi – o quanto meno tenerne debitamente in conto – i popoli limitrofi.

Limitare il nazionalismo crescente nei popoli balcanici, dal punto di vista asburgico, per conservare l’impero che fu di Maria Teresa, da un lato e, dall’altro, invece incendiare le rivolte autonomiste e separatiste per mettere fine all’occupazione austro-ungarica dei territori serbi sotto il dominio di Francesco Giuseppe, può essere la cornice socio-politico-amministrativa che si sommò ai tanti interessi commerciali e alla grande espansione industriale e marittima dell’epoca. Da difendere e da espandere. Un imperialismo che si sarebbe tornato a riversare a cascata su tutti i Balcani e che non poteva essere tollerato dalle appena rinate nazioni slave.

Facendo un breve sommario confronto tra pretesti e realtà dei motivi che condussero la Germania nazista alla guerra, risulta evidente, per l’enormità delle seconde rispetto ai primi, che della scaramuccia di Gleiwitz ci si ricorda soltanto se la si studia attentamente, visto che viene trascurata colpevolmente dal punto di vista storico ma con qualche ragione per affermare – altrettanto storicamente – che Hitler mosse guerra alla Polonia non perché una stazione radio di confine venne fatta attaccare dalle sue stesse truppe, ma perché il “nuovo ordine” nazista guardava allo “spazio vitale” ad Est e alla sottomissione di tutti i popoli considerati “inferiori“.

Qualche anno prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, in preparazione alla medesima, l’Italia aveva creato il suo “impero” aggredendo l’Etiopia dopo quello che è passato alla Storia come l”incidente di Ual-Ual“, non molto dissimile dagli altri pretesti adoperati per fingere di essere aggrediti e, un minuto dopo, tramutarsi negli aggressori, questa volta autoproclamatisi “salvatori” della “faccetta nera piccola abissina“.

Nella Spagna repubblicana del 1936 non andò poi così differentemente: quando le truppe di stanza in Marocco si rivoltano contro il governo di Madrid, i proclami di Francisco Franco e degli altri generali golpisti per salvare il popolo dal comunismo ateo e materialista sono il pretesto con cui agitare immediatamente una propaganda che, tuttavia, almeno nelle prime giornate di insurrezione non riesce a far breccia direttamente nella popolazione.

Le guerre di aggressione devono fondarsi necessariamente sulla pretestuosità perché, se si seguisse anche soltanto il buonsenso, si dovrebbe provare fino alla fine, ottenendo un risultato positivo, a sedersi diplomaticamente attorno ad un tavolo, trattare ed evitare sofferenze e morti tra i propri concittadini e nel resto dei popoli. Ma le ragioni dell’imperialismo, del potere economico sorretto da quello politico, non possono piegarsi alla logicità della non violenza e alla descrizione delle potenzialità benevole dell’animo umano. Gli interessi materiali condizionano le idee e le piegano alle loro necessità.

La carrellata di pretesti può continuare dall’età moderna a quella contemporanea: non sono forse state pretestuose le guerre di fine ‘900 proprio nella Jugoslavia implosa dopo la morte del maresciallo Tito? Non sono stati fin troppo eclatanti i pretesti addotti dalle amministrazioni americane per aggredire nazioni sovrane come il Vietnam, l’Iraq, la Libia, e ancora l’Afghanistan e poi l’Iraq per una seconda volta?

L’immagine di Colin Powell che mostra la provetta all’ONU contente sostanze con sui sarebbero state fabbricate pericolose armi proibite dall’Iraq di Saddam Hussein ha fatto giustamente il giro del mondo ed è divenuta altrettanto giustamente iconica. Come racconta la storia, l’allora Segretario di Stato di George W. Bush quel 5 marzo mentì spudoratamente per avere una legittimazione globale all’intervento bellico in Medio Oriente che, infatti, appena due settimane dopo si riversò nella antica Mezzaluna fertile.

Solitamente i pretesti per fare la guerra sono accompagnati da un racconto molto sdolcinato, lamentevole sulle sorti antidemocratiche di un popolo che viene ad essere liberato generosamente dai soldati in punta di baionetta prima e con il rombo dell’obice poi, fino alle modernissime armi di distruzione di massa (comprese le mine antiuomo e le chimiche al fosforo bianco… chiedere agli iracheni ed ai palestinesi per saperne di più sugli effetti…): la propaganda è un’arma non meno importante delle armi propriamente tali.

La questione ucraina di questi giorni non sarà risparmiata, qualora dovesse involvere nel conflitto aperto tra Mosca, Kiev e Washington, dal cappello del pretesto e dall’accompagnamento della ulteriore massa di notizie contraddittorie perché uguali e contrarie al tempo stesso. La veridicità dei fatti sarà garantita soltanto da una intersecazione di dati, di reportage e di cronache che potremo avere dai fronti e dalle zone vicine ai luoghi dove si dovesse combattere.

Quello che in queste ore viene chiamato l”incidente dell’asilo di Stanytsia Luhanska” somiglia davvero tanto ai colpi di pistola a Sarajevo e a quelli di fucile di Gleiwitz e Ual-Ual. Il rimpallo delle accuse vicendevoli è ormai già consegnato all’analisi dei commentatori di guerra, mentre Putin, Zelensky e Biden si annusano e lanciano proclami che sono le pedine di uno scacchiere pronto ad incendiarsi.

Non esiste nessuna buona fede nelle parole dei governi che stanno per dichiarare una guerra: contano soltanto gli obiettivi che si sono dati e che si chiamano NATO, gasdotti, espansione politica e militare tanto ad est quanto ad ovest. Non sono due poli opposti che si scontrano: sono due somiglianze che si fronteggiano e che sono pronte a darsi battaglia per stabilire chi comanderà militarmente, economicamente e politicamente nell’Europa dell’Est, nel Mar Nero e nel Caucaso.

Tutto il resto sono soltanto pretesti.

MARCO SFERINI

18 febbraio 2022

foto: screenshot You Tube

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