Manifesto per un’Europa egualitaria

Nemmeno dieci anni fa, dopo la grande crisi economico-finanziaria del 2007-2008, uno studioso del movimento operaio tedesco come Karl Heinz Roth e il sociologo greco Zissis Papadimitriou scrivevano un...

Nemmeno dieci anni fa, dopo la grande crisi economico-finanziaria del 2007-2008, uno studioso del movimento operaio tedesco come Karl Heinz Roth e il sociologo greco Zissis Papadimitriou scrivevano un “Manifesto per un’Europa egualitaria” (DeriveApprodi, 2013). Sottotitolo: “Come evitare la catastrofe“.

Era il tentativo di analizzare, ricostruendola proprio storicamente, la crisi verticale del sistema capitalistico nella sua declinazione europea, senza decontestualizzarla, ponendola proprio dentro i sommovimenti mondiali che avevano sconvolto le certezze di un liberismo che si era affacciato sulla scena anzitutto dell’asse euro-americano.

Quella “trazione tedesca” dell’Europa costituitasi in una “Unione” più che altro monetaria, allora era un concetto agli albori, che emergeva comunque da una ricognizione nella brevità temporale dei cicli economici di un continente che, oggettivamente, stava sulla scena della moderna globalizzazione come una delle potenze concorrenti con i poli emergenti e riemergenti.

Al centro del lavoro di indagine di Roth e Papadimitriou c’è l’esame dello sviluppo diseguale, dell’affermarsi ancora una volta della contraddizione massima del sistema capitalistico come conferma della sua irriformabilità; eppure, al contempo, della necessità di un recupero di un riformismo che, se inteso come forza motrice del cambiamento e non del mantenimento di quello che, di volta in volta, può apparire uno status quo imperituro, può essere il punto di partenza di un ripensamento tanto “locale” quanto “globale” del sistema.

Bisogna intendersi, a scanso di equivoci: il riformismo politico e il riformismo economico sono apparentemente simili. In realtà, il primo è la cinghia di trasmissione di interventi sovrastrutturali che, tuttavia, possono influenzare il cammino della nuova fase liberista. Siamo nel 2013, ma potremmo tranquillamente calare, mutatis mutandis, quella ricostruzione della seconda metà di un Novecento di espansione produttiva e di rapidissima crescita tecnologica, nel nostro 2022.

Cambierebbero, per l’appunto, soltanto i numeri, i nomi dei partiti, delle forze al governo dei singoli Paesi e, certamente, molti dei presunti equilibri di allora. Ma rimarrebbe intatto l’involucro che contiene le crisi, che le determina e tenta di gestirle a danno della stragrande maggioranza indigente della popolazione.

La crisi dell’Europa dei popoli, propagandata come il vero scopo della costituzione della UE, per certi versi, se andiamo ad analizzare i numeri assoluti, pare persino rientrata. Ed invece non lo è affatto. L’aumento del debito pubblico nelle singole realtà statali non è andato di pari passo con un rafforzamento delle garanzie sociali: tutto il contrario. Anche l’Italia, attraverso gli indirizzi politici di Bruxelles e Francoforte, ha adeguato le sue riforme governative alle linee guida del liberismo più sfrenato.

Per cui, se diamo uno sguardo nell’insieme, nel corso delle trasformazioni da CECA a CEE e da questa all’Unione Europea, Berlino si sostituiva all’egemonia americana sul continente, almeno per la parte che concerneva le politiche strettamente finanziarie e bancarie, mentre gli USA conservavano con la presenza della NATO quella militare, influenzando pesantemente la politica estera continentale.

Tutto questo era possibile per l’entrata in crisi di quello che gli autori richiamano con grande precisione come il “modello Bretton-Woods“.

Dal 1944 in avanti il capitalismo mondiale aveva ingranato la marcia puntando tutto sulla superpotenza americana. Trent’anni dopo il fordismo delle grandi fabbriche doveva cedere il passo ad una mutazione radicale dell’asse di equilibrio mondiale, nonostante non si fosse ancora palesato quel grande passaggio storico (e quindi economico) che fu il crollo dell’impero sovietico.

Nel momento in cui il liberismo si afferma, proprio a metà degli anni ’70 del “secolo breve“, entra in crisi l’autonomia del mondo del lavoro: saltano abbastanza velocemente le tutele sociali, le garanzie operaie, i rapporti di forza tra classe borghese ed imprenditoriale e un moderno proletariato che viene decomposto nella sua unità, nella sua altermondialità che non riuscirà a reggere l’urto della fine di un socialismo “irreale” fattogli vivere dai partiti comunisti occidentali – almeno fino ai primi anni ’80 – come la parte a cui guardare acriticamente.

Il tentativo di una proposta di sinistra europea, quell’eurocomunismo di cui fu protagonista il PCI di Enrico Berlinguer, non riesce a radicarsi nemmeno nei paesi in cui fa il tentativo di venire alla luce: vince il modello del consumo totale, della mercificazione di ogni cosa, della liberalizzazione e della privatizzazione dei servizi fondamentali nella vita quotidiana di ciascuno e di tutti.

Il modello tatcheriano-reaganiano prevale sul riformismo tanto di centro quanto, ovviamente, di sinistra. L’Europa arriva, nel primo decennio del nuovo millennio, ad avere quasi trenta milioni di disoccupati.

Una enormità. Un preludio ad una catastrofe antisociale che mostra tutti i segni dell’inadeguatezza del liberismo rispetto alle sfide cui lo pone innanzi l’abnorme incremento demografico mondiale, le prime ondate migratorie moderne dall’Est europeo e dal Sud-Ovest asiatico-africano e, non da meno, la sempre più evidente, drammatica situazione di insostenibilità ambientale.

La domanda che Roth e Papadimitriou si fanno è: come siamo arrivati a questo punto? Interrogativo a cui ne seguono, chiaramente, molti altri e per i quali le risposte non sono sempre esaustive.

Oggi possiamo dire di avere un quadro più omogeneo delle ragioni storiche, quindi del dinamismo socio-economico-politico che ha prodotto lo stato di crisi permanente nella struttura europea e, a cascata, nelle sovrastrutture sociali, culturali e civili di ogni singola nazione di una Europa che non recupera il suo divario con i grandi poli del capitalismo del XXI secolo, ma resta a segnare il passo in un costante affanno, divisa al suo interno soprattutto sulle scelte di politica estera.

Proprio il fatto che il “manifesto” di Roth e Papadimitriou si collochi al di fuori del nostro tempo, stando nel recente passato e guardando già allora ad un futuro immediato (in cui forse in parte ci troviamo, quasi come nemesi storica…), consente di leggerne la fotografia che ne viene dell’Europa del 2013 al pari di una vera e propria istantanea conferma delle proposte politiche e sociali che la sinistra di alternativa ha provato a modulare nel corso degli anni, mentre la velocità dei cambiamenti si faceva sempre più esponenziale.

L’imprevedibilità della pandemia da Covid-19 e delle guerre che si sono succedute (nonostante l’epoca del “terrorismo internazionale” fosse già stata ampiamente e tristemente inaugurata dodici anni), principalmente quella in Ucraina, che ci riguarda anche temporalmente proprio da vicino, non fa di questo libro un mero anacronismo, qualcosa di semplicemente superato. Soprattutto non ne un testo superabile, perché pone tutta una serie di domande che sono, oggi soprattutto, quelle che continuiamo a porci e offre una serie di risposte-proposte che sono esattamente quelle che continuiamo a darci.

Quelle “riforme decisive“, richiamate ad incipit dell’elencazione dei punti di una sorta di programma egualitario per un’Europa dei popoli e delle affinità nelle differenze mai veramente nemmeno presa in considerazioni dai poteri politici al servizio del capitale, sono tutt’altro che un approccio riformistico al problema di una riqualificazione dell’autonomia del mondo del lavoro.

Scrivono gli autori: «Le classi subalterne vivono il percorso verso l’affermazione dei loro diritti esistenziali come un processo prolungato, in cui si susseguono momenti di accelerazione, fasi più rallentate e temporanee battute di arresto. Queste tappe includono sempre anche sperimentazioni antisistema, che vengono messe alla prova nella prassi sociale. Riforma e rivoluzione non stanno dunque su fronti del tutto opposti e reciprocamente escludenti dell’azione di emancipazione».

Tutto il contrario: la conclusione, riguardo al rapporto tra politiche riformiste e slanci rivoluzionari di massa è che, a differenza del passato, in cui socialdemocrazia e comunismo confliggevano, visto che il secondo era una reazione al moderatismo acquiescente delle forze che intendevano venire a patti con la borghesia proprio in merito al cambiamento sociale, oggi la formulazione di una nuova stagione economica esige un ripensamento delle categorie con cui gli anticapitalisti si sono pensati e hanno agito fino ad ora.

E’ la straordinaria complessità del sistema che ci mette davanti ad una altrettanto necessaria straordinaria complessità della edificazione di una alternativa di società, di una alternativa, quindi, al sistema stesso. Non è più possibile pensare al comunismo nei termini novecenteschi e ottocenteschi. Ma è necessario pensarlo ancora come “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente“.

Su questa epigrafe propositiva, tutt’altro che funerea per il mondo degli sfruttati moderni e per chi politicamente intende rappresentarne le istanze, va riposta la progettualità egualitaria che Roth e Papadimitriou richiamano fin dal titolo del loro libro e che si conclude con un “programma di azione” che comprende interventi che possono parere banali, scontati, ma che sono l’alfabeto essenziale che va sviluppato nella sostanziazione di una nuova lingua sociale, politica, culturale e civile.

Probabilmente, l’idea che emerge, perché si propone un modello di Europa opposto a quella odierna, è quello di una transizione dall’attuale Unione ad una “repubblica federale” in cui «dissolvere tutti gli Stati membri “superiori” e “inferiori”»: una unità statale comunalistica, che dai territori arrivi al vertice partendo appunto da piccole comunità locali, tenuti insieme da una specie di cantonalismo elvetico.

E’ un azzardo descrivere minuziosamente l’idea precisa di un nuovo federalismo europeo. Solitamente quando si tenta di preconizzare il futuro di un popolo, di un paese o di un insieme di genti, si fallisce sempre clamorosamente, perché un conto sono i desideri e un conto è la realtà dei rapporti di forza che ci costringe a venire a patti con noi stessi.

Marx, probabilmente, avrebbe apprezzato tutto il libro di Roth e Papadimitriou tranne quest’ultima parte. Vale anche un po’ per noi. La dissoluzione degli Stati dell’Unione Europea non è immaginabile nemmeno a lungo termine: non siamo gli USA, non abbiamo una cultura sufficientemente omogenea per sentirci parte di un unico complicato sistema confederale o federale.

Ma dobbiamo avere sempre più interessi comuni. Per questo i lavoratori e gli sfruttati devono riconoscersi in una idea di Europa che arrivi sempre più vicino ad una essenza democratica diretta, ad essere vissuta come condivisione di problemi e di soluzioni e non come forziere per gli interessi privati e capitalistici.

Prendiamo, a partire da questa lettura, gli spunti per lavorare in questa direzione come sinistra, come comunisti del nuovo “grande e terribile” millennio.

MANIFESTO PER UN’EUROPA EGUALITARIA
KARL HEINZ ROTH, ZISSIS PAPADIMITRIOU
DERIVEAPPRODI, 2013
€ 10,00

MARCO SFERINI

30 novembre 2022

foto: particolare della copertina del libro

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