Ma per fortuna che c’era (e ci sarà) Paolo Pietrangeli

C’era ancora “l’Unità” nel 1994. Ed è proprio grazie al giornale di Antonio Gramsci, già organo centrale del PCI, ed allora sempre meno gramsciano nel suo essere organo del...

C’era ancora “l’Unità” nel 1994. Ed è proprio grazie al giornale di Antonio Gramsci, già organo centrale del PCI, ed allora sempre meno gramsciano nel suo essere organo del Partito Democratico della Sinistra, che ho tra le mani ancora oggi un CD di Paolo Pietrangeli che riunisce due concerti dal vivo in uno straordinario viaggio nel tempo: dal ’68 di “Contessa” ai brani degli anni ’90 forse un po’ meno noti proprio a quell’ondata di rivolta di oltre mezzo secolo fa.

Tra una lezione di storia degli antichi Stati italiani e un’altra di storia dell’agricoltura, tiro fuori dalla mia cartellina il lettore portatile, metto le cuffie e lo ascolto. Ricordo ancora oggi molto bene le ore passate sui grandi scaloni universitari a sentire e risentire quelle canzoni. Ed a ripensarci oggi, il luogo era proprio uno di quelli più amati da Pietrangeli: l’università, centro della rivolta, speranza di una generazione migliore per la costruzione di una società più giusta, che guardasse al comunismo come alla frontiera di una emancipazione sociale e civile che pareva a portata di mano.

L’album mi conquista e così decido di approfondire. L’ho sempre fatto con tutti i cantautori e i gruppi che ho amato e che amo tutt’ora: da “I Nomadi” a Francesco Guccini, da Massimo Bubola a Fabrizio De Andrè, da Rino Gaetano ai Litftiba. Erano tempi in cui la musica la dovevi comperare o ascoltare alla radio. E in quest’ultima non sentivi certo passare nei palinsesti le canzoni di protesta; tanto meno se vecchie di qualche decennio. Ma i CD di Paolo Pietrangeli li trovavi sia alla Feltrinelli sia alla Mondadori.

Provate a immaginare un poco più che ventenne che ascolta “Dato che (la risoluzione dei comunardi)“: oggi direbbero che è un nerd, e forse lo ero in verità. Ma penso di essere stato anche qualcosa di più, forse di differente dal tipo di occhialuto cocciuto pseudo-studioso con cui si identifica oggi la parola. Grazie a “il manifesto“, a “Liberazione” ed anche a “Cuore” e “Smemoranda” avevo scoperto altre riviste e tanti libri da poter leggere per approfondire una passione politica.

Grazie a Francesco Guccini, a “I Nomadi” e a Paolo Pietrangeli soprattutto (per il suo tratto marcatamente militante) avevo scoperto la colonna sonora della mia gioventù politica, del mio progressivo avvicinamento al comunismo proprio come movimento libertario, liberato da tante incrostazioni pregiudicanti del recente passato dell’allora presente, vivibile come ragione di un’esistenza, ma senza nessuna tentazione dogmatica o fideistica.

L’eresia del comunismo critico e antistalinista in fondo c’era un po’ tutta nelle canzoni di Paolo Pietrangeli: dalla crisi di mezza età di “Era sui quarant’anni“, del comunista che fa un pietoso bilancio della sua vita, forse si rammarica anche in parte di aver fatto alcune scelte («…vale la pena, vale la pena o no…»), ma alla fine intanto «lui ci andò»: alla lotta, alle manifestazioni, alla rivoluzione; alla disperanza dellameana che si può ascoltare così tenacemente in “Ma per fortuna che c’è la Roma“.

Non c’è alcuna arrendevolezza, mai, nella grande epopea artistica di Pietrangeli: soprattutto come cantautore. Vede il figlio in piazza, si rivede lui da giovane e compone il sogno del futuro. Non la città del sole di Campanella, ma quasi: “La città volatile“, quella che ancora non c’è e che parla, oltre che di vita necessaria e giusta anche di una vita sostenibile, di un ambiente a cui l’uomo deve adattarsi e non viceversa. C’è una sorta di vena eco-marxista in queste canzoni degli anni ’90, così diverse per ritmo e per testo da quelle che si intonano ancora oggi nei cortei, eppure così complementari proprio con gli anni rivoluzionari e quelli successivi “nati dal fracasso“.

L’esame autobiografico di una vita intera passata accanto ad un proletariato e ad una classe operaia che ha perso via via la propria autonomia, la coscienza critica e la capacità di battersi per un mondo radicalmente capovolto rispetto all’oggi, Pietrangeli lo ripropone con “Come“: un titolo icastico, ridotto ad avverbio o, più probabilmente, ad una congiunzione.

Dipende dalle strofe. Dipende dal rapporto che il cantautore rosso stabilisce tra il ricordo e il presente assente in cui si riconosce meno di allora, ma in cui non demorde e in cui lotta: scrivendo ancora canzoni ma pure libri, girando per l’Italia a fari piccoli concerti e dovendo sempre continuare a cantare “Contessa” che – dicono i biografi da strada che lo seguivano passo passo – non sopportava più.

Ma la cantava volentieri, superando questa noia della ripetizione, perché “Contessa“, come “Il vestito di Rossini“, era un inno, al pari de “La locomotiva” di Guccini o di “Io vagabondo” de “I Nomadi“. E non si sfugge all’epifenomeno che ti porti appresso, che hai creato e che la gente vede sempre come ombra che si staglia sui marciapiede dove cammini e sui muri che rasenti: la contessa, che parla seduta al caffè e ascolta chi le dice che «all’industria di Aldo han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti», non lo lascerà mai più.

Ma Paolo Pietrangeli è stato, oltre che l’accompagnatore melodico delle nostre vite da pseudo-rivoluzionari, anche un apprezzato regista: da aiuto-regista di Bolognini e Fellini nei primi anni ’70 fino ai trent’anni di televisione fatti guidando il “Maurizio Costanzo Show“. Qualcuno gli avrebbe rimproverato quel rapporto con le reti berlusconiane. Ipocritamente. Perché si propose sempre per quel che era e non trasformò mai sé stesso in cambio di qualche quattrino in più. Semmai era Berlusconi ad avere nel suo impero televisivo un comunista, dichiaratamente tale, maledettamente bravo a gestire anche i più moderni spettacoli di intrattenimento.

Nel 1999 scrisse un bonus musicale, un “Canto di Rifondazione“, del partito in cui aveva visto, fin dalla morte del PCI, l’erede di una preservazione della lotta anticapitalista, per una attualizzazione prima ed un ringiovanimento poi (con l’abbandono di qualunque legame con lo stalinismo) di tutto un mondo dell’alternativa che non poteva essere rinchiuso solo tra analisi e presunti determinismi storici sull’inevitabilità della fine del capitale.

Del resto, l’amore è eterno fin che dura, ma è amore se dura veramente molto e se, rispetto alla brevità della vita, già oltrepassa i decenni. Come quello del cliente Pietrangeli de “Lo stracchino“, un balbuziente che per vent’anni compera il formaggio sempre nello stesso negozio e si confessa: «Lo faccio per vedere tutte le sere, le sopra quella scale e io sempre più in basso, perso nel mio universo».

I ritratti d’artista di quelle piazze piene di operai e di studenti, preda di una nostalgia piena di colori e di tinte un po’ sfocate, quasi vicine ad una sorta di astrattismo non troppo voluto, ma tollerato e forse un poco apprezzato, venivano fuori da ogni nota di “Io ti voglio bene” o da “Isole lontane“. Qui sono proprio i panorami del futuro a sposarsi con le reminiscenze e a confondersi in un continuum che esprime la ragione di una vita: stare dalla parte dei più deboli, degli sfruttati e fare dell’arte qualcosa di meno borghese possibile, di sfuggente al mercato, di impossibilità a piombare nella volgare banalità del troppo comune.

Pietrangeli non ha mai voluto essere “esclusivo“, “elitario” e per pochi. Ma erano le sue canzoni ad essere selettive, a scegliere per lui il suo pubblico e la sua gente. Che, appunto, le riconosceva e le cantava istintivamente come pagine di una medesima storia, di un identico presente. Non c’era e non c’è dunque spazio per alcuna ambiguità nelle sue canzoni: nessun neofascista e nessun democristiano di vecchia o nuova generazione potrebbe cantarle. “Karlmarxstrasse” e “Mio caro padrone domani ti sparo” non sono, oggettivamente, “La canzone popolare” di Fossati.

Salutare Paolo Pietrangeli è difficile perché è veramente un pezzo delle nostre vite: le ha intrise della sua voce tonante, del suo aspetto austero e bonario al tempo stesso. Salutarlo vuol dire pensarlo insieme ad Ivan Della Mea, ad Alfredo Bandelli, Claudio Lolli, Pierangelo Bertoli ed Alberto Cesa. A tanti, tanti altri per cui «le note accompagnavano il cammino degli oppressi». Quando c’era tanto tempo, ed era ancora un vanto esser diversi. Con te, meglio con te.

MARCO SFERINI

23 novembre 2021

foto: screenshot

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