L’eredità post-moderna e attuale del “vernichtung” hitleriano

Durante i dodici anni di terrore e di orrore nazista, la Germania, l’Europa e il mondo sperimentarono molte volte ed in diversi modi quella voglia di “annientamento” che stava...
Adolf Hitler

Durante i dodici anni di terrore e di orrore nazista, la Germania, l’Europa e il mondo sperimentarono molte volte ed in diversi modi quella voglia di “annientamento” che stava nell’animo, nella volontà politica e, quindi, nei piani di guerra di Adolf Hitler. Il termine tedesco per significare tutto questo era stato scritto e pronunciato dal Führer ben prima di diventare il cancelliere – presidente del nuovo impero, del Terzo Reich: “vernichtung“.

Ripreso da Goebbels, fu, nel momento del trionfo tedesco per la presunzione della facilità del “blitzkrieg“, riferito essenzialmente alla contrapposizione che di lì a poco vi sarebbe stata tra Berlino e Mosca con l'”Operazione Barbarossa“. Ma l’annientamento era nei piani nazisti quasi in nuce, nella mente e nella volontà di un risentimento collettivo, di una voglia di rivalsa che avrebbe febbricitantemente attraversato il corpo politico e social tedesco appena dopo il fallito putch di Monaco.

La guerra ne esasperò i tratti megalomani, facendolo diventare un programma sistemico di conduzione del conflitto: non solo quindi un confronto tra potenze, ma una occasione per farla finita con avversari storici e con popoli visti come inferiori agli occhi della superiorità attribuita da Hitler, con toni impropriamente ricondotti al wagnerismo, al destino cui era chiamato il popolo tedesco. O la sua vittoria totale contro il “bolscevismo giudaico“, oppure la sua totale rovina.

Nel “Mein kampf” e nei tanti discorsi che tenne durante la sua ascesa come nuovo capo del Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi (NSDAP), Hitler si produsse in iperboli che estasiavano un’esangue società, privata del diritto ad una esistenza dignitosa dalle clausole capestro del Trattato di Versailles; resa praticamente schiava di una economia di guerra che era diventata il macigno ipotecario più gravoso sulla fragile Repubblica di Weimar, su una una giovanissima democrazia che non riuscirà mai a vedere la propria maturità.

Il ricorso alla neutralizzazione di tutti coloro che si opponevano al movimento völkisch, ad un pangermanesimo di nuova generazione, ad una idea di Germania a cui toccasse, dopo Austria e Francia, il dominio di gran parte dell’Europa, aveva assunto i connotati di un programma politico legittimato tanto quanto le proposte di solidarietà comune, di internazionalizzazione delle problematiche sociali che, oggettivamente, avevano una dignità maggiore ed anche superiore rispetto all’esclusivismo xenofobo e antisemita dell’hitlerismo.

L’idea genocida, intrinsecamente espressa nei discorsi in cui si faceva chiaro riferimento alla riappropriazione da parte dei tedeschi dei loro “spazi vitali” tanto interni quanto esterni alla Germania, la si poteva quindi rintracciare, seppur ancora non con i chiari connotati omicidiari di massa con cui sarebbe stata messa in pratica durante la guerra, già nella virulenza delle prime asserzioni del giovane caporale sfuggito ai gas mostarda, alle pallottole e alle granate del primo conflitto mondiale.

Ciò che interessa qui osservare è questa idea, molto moderna purtroppo, tremendamente attuale, di una soluzione dei problemi nazionali di un popolo facendo ricorso all’ipotesi dell’annientamento di un altro popolo. Che non vi sia spazio per una condivisione dei grandi temi epocali che affliggono interi continenti e che, comunque, interessano la globalità, l’intera umanità, animalità e l’habitat in cui sempre più sopravviviamo, è un sintomo molto preoccupante.

Oggi non si pronuncia il termine “annientamento” con troppa disinvoltura, ma tuttavia ogni tanto lo si sente echeggiare nelle dichiarazioni dei comandanti delle formazioni militari tanto russe quanto ucraine, nonché, scostandosi un attimo dalla guerra europea, anche negli anatemi vicendevoli che si scambiano palestinesi e israeliani, arabi e cristiani, iraniani e americani, cinesi e statunitensi.

E’ abbastanza lapalissiana la constatazione che ogni forma presa dall’imperialismo necessita di una concezione genocidiaria nel peggiore dei casi, apartheidica e suprematista in quello di media grandezza negativa, economico-finanziaria nel caso meno impattante direttamente sulle vite delle persone ma non meno falcidiante i diritti ad una esistenza dignitosa, autonoma e indipendente su un periodo di più lungo termine.

Dopo la fine del Terzo Reich, dopo l’Olocausto del popolo ebraico, degli omosessuali, degli zingari, degli apolitici e degli apolidi, dei Testimoni di Geova e di tutti coloro che venivano ritenuti inferiori e indegni di vivere nel nuovo ordine mondiale vagheggiato dalla megalomania di Hitler e della sua cerchia criminale, il concetto di “annientamento” non è scomparso dall’agenda di una politica oligarchica, dittatoriale, militarista, fascista e repressiva.

Tutti i regimi autoritari che sono riusciti ad affermarsi nel corso della seconda metà del Novecento (compresa la Spagna franchista, leggermente antecedente a questa fascia temporale) hanno utilizzato metodi coercitivi su vasta scala e hanno ritenuto più utile una eliminazione massiva dei propri oppositori, alternativa ad una carcerazione a lungo termine, ad un esilio o ad un confino.

In questo senso, si può affermare che il salto di qualità negativo fatto dalle dittature, passate dalla relegazione dei propri nemici all’eliminazione fisica totale, è stato possibile anche grazie all’esempio fornito dalla matrice originaria: quella del Terzo Reich.

Sono i fascismi, in pratica, in quanto regimi totalitari, ad escludere per primi la possibilità di una subordinazione delle opposizioni ai loro dettami: l’annientamento è più sbrigativo, elimina molte contraddizioni evidenti in seno alla società e, a volte, lascia molte poche tracce dietro di sé. Se non altro nell’immediato.

Nonostante nazisti, fascisti, franchisti e dittatori di ogni latitudine e longitudine geografica abbiano tentato di occultare le prove dei loro massacri, noi siamo riusciti a saperne praticamente tutto e con una correlazione esatta tra la proporzionale enormità dei crimini e il numero di informazioni che si sono avute in seguito.

Il regime genocida di Pol Pot non ha potuto nascondere al mondo i quasi due milioni di morti fatti. Così la criminale dittatura di Videla in Argentina non è riuscita a tacitare le voci di chi è sfuggito ai tanti Garage Olimpo sparsi per il paese, dove si torturavano gli oppositori politici e i cittadini che svolgevano attività considerate pericolose per il governo, dove si avviavano tutte queste persone agli aerei che sorvolavano l’Oceano Atlantico e che accoglievano i corpi narcotizzati destinati alla morte per annegamento o per divoramento da parte degli squali…

Così, allo stessa stregua, anche del primo dei genocidi della storia moderna di cui siamo a conoscenza, quello degli armeni, sappiamo moltissimo: l’Impero ottomano, schiantato contro sé stesso dalla furia della guerra mondiale, esauritosi nel corso dei secoli e ridotto a potenza esclusivamente mediorientale, non è riuscito, al pari della nuova repubblica turca alle prese con il suo riassetto territoriale e sociale, a mettere la sordina su un crimine enorme.

L’evolversi della comunicazioni, la loro capacità di trasmettere praticamente in diretta le notizie, ha consentito, ormai da molti decenni, di riuscire a sapere nell’immediatezza ordine e gradi delle efferatezze compiute dai governi nei confronti della loro gente e di altri popoli.

Oggi, paradigmaticamente, sembrerebbe il caso della guerra tra Russia e Ucraina, ma sarebbe meglio dire tra Russia e NATO, quindi tra Mosca e Washington, con in mezzo il popolo di Kiev che patisce lo scontro tra questi due imperialismi moderni. Anche in questi frangenti, il ritorno dell’eco del “vernichtung” si fa sempre più forte, mano a mano che la guerra si inasprisce.

Da un lato Zelens’kyj e Podolyak, dall’altro Putin e Medvedev, se si dovessero prendere esattamente sul serio le rispettive minacce, senza il filtro della propaganda mediatica rivolta ai popoli interessati, ed indirizzata agli altri come una sorta di deterrente universale molto, molto poco efficace in quanto a rassicurazione per un equilibrio sostanziale delle forze in campo, si dovrebbe convenire logica freddezza che l’annientamento è nei fatti nel programma di entrambi.

Non c’è la minima apertura al dialogo per una trattativa che metta, quanto meno, il cessate il fuoco sul tavolo delle ipotesi da avanzare. Zelens’kyj lo ha escluso praticamente a priori, richiamando il cardinale Zuppi ad un buonsenso di guerra che è difficile poter francamente accettare, tanto per un religioso quanto per un laico.

Del resto, la guerra è esattamente, sempre e soltanto questo: annientamento. Che possa prendere i contorni del programma genocida è sempre, drammaticamente possibile: perché la colonizzazione di nuovi territori include o la fuga in massa di chi vi risiedeva prima, oppure la deportazione. E sappiamo bene, proprio studiando a fondo il caso tedesco, che esclusa anche la matrice razziale propria della logica suprematista hitleriana e, per esteso, del nazismo, non è affatto impossibile che ciò si ripresenti in modalità differenti e afferenti al tempo stesso.

Questo perché le leggi meccaniche dei comportamenti umani sono condizionate da una serie di rapporti di forza economici che inducono alla supremazia: nel capitalismo è strutturale questo elemento di dominio di una parte sul tutto, nel nome del profitto e dello sfruttamento della stragrande maggioranza dell’umanità, dell’animalità e della natura.

La radice prima, quindi, di ogni male è il capitalismo, è, oggi, la sua involuzione evoluta che prende il nome di “liberismo“. L’annientamento è prima di tutto una tendenza strutturale che viene condivisa da regimi autoritari che garantiscono alle classi dirigenti e ai popoli quei privilegi e quei diritti che possono esistere soltanto a scapito del sacrificio esistenziale di altrettante persone, di altrettanti individui viventi.

Il legame saldo, quindi, tra lo Stato forte e il liberismo è, oggi molto più di ieri, un connubio inscindibile per una riconfigurazione imperialista del mondo ed è la base nichilista di una rivoluzione al contrario, regressiva, opprimente, in cui non si libera nessuno, mentre si cambiano i padroni e i governanti di turno. Molte volte si sente affermare che è impossibile un ritorno delle dittature novecentesche nelle forme e nei modi in cui le abbiamo conosciute attraverso tutti gli elementi di studio che abbiamo, le innumerevoli testimonianze cui possiamo attingere.

E’ vero. Ma solamente per quanto riguarda l’esteriorità delle forme, la disposizione dei modi. Il tutto condizionato da nuove tempistiche, da nuove tecniche di aggregazione e segregazione. Basti pensare ai conflitti interetnici in un’Africa che, troppo precipitosamente, ci siamo affannati a dichiarare “decolonizzata” appena una sessantina di anni fa: Ruanda e Burundi, Somalia, la guerra civile libica, i sommovimenti della primavere arabe che hanno sconquassato tutto il fronte mediterraneo del continente…

E una interminabile serie di guerre tribali annose, di conflitti rinvigoriti dal fervore religioso assunto dal terrorismo qaedista prima e da quello daeshiano poi. Con le mille sfaccettature psuedo-culturali prese da regimi e da oppositori incapaci di governare, a nome e per conto delle potenze cosiddette “democratiche“, tanto europee quanto americane, i territori conquistati o riconquistati alle fazioni in lotta.

L’annientamento, come traduzione pratica di una politica dominatrice, suprematista a vario colore e titolo, indubbiamente razzista e colonizzatrice delle menti, dei corpi e degli spazi in cui agiscono, non è dunque andato svanendo con la fine dell’incubo nazista; semmai si è moltiplicato e ha ottenuto la patente di “logica conseguenza“. Dall’Afghanistan dei talebani all’Iran degli ayatollah. Dalle guerre del Golfo ad Abu Ghraib. Dagli stermini di massa tra hutu e tutsi alla attuale disastro umanitario in Sud Sudan.

Possiamo fare appello a tutti i princìpi democratici che conosciamo, rifacendoci all’essenzialità del concetto nell’antica Ellade. Possiamo richiamarci al buon senso, allo stato di necessità cui siamo chiamati a rispondere sempre più velocemente, vista l’incontrovertibilità dei disastri ambientali causati dal capitalismo, dalle guerre che ne sono emanazione, dalla voglia di potere e di dominio di uno o di gruppi di Stati nei confronti di altri.

Possiamo pensare così di emendare la nostra coscienza dall’essere un tutt’uno con il resto delle atrocità che ogni giorno ci arrivano agli occhi e alle orecchie. Ma non possiamo non evidenziare, molto marcatamente, che la voglia di annientamento non è limitata soltanto a deliranti concezioni razziste di politiche nazionali e nazionaliste. L’odio verso gli ebrei di fine ‘800 e inizio ‘900 era il disprezzo per una classe che si diceva economicamente agiata, che una certa parte del capitalismo tedesco ha utilizzato per fomentare l’esclusione dell’altra parte dalla scena finanziaria tedesca ed europea.

L’hitlerismo ha interpretato questa propensione inespressa, celata e negata fino all’impossibile. Il potere politico obbedisce, tanto o poco, a quello economico. Alle fondamenta della guerra in Ucraina e di ogni altra guerra, c’è sempre e soltanto una ragione di tipo utilitaristico: il benessere di una parte contro il malessere del resto che ci circonda. Ogni avversione nei confronti dei nazionalismi è, e dovrebbe essere, anzitutto avversione nei confronti del capitale e della finanza, della grande ricchezza, del profitto, del privilegio di classe.

Nulla di tutto ciò è mai solamente quello che, ad un primo impatto, appare o viene descritto dalla stampa con i caratteri maiuscoli dell’emotività. Un’altra speculazione. Ma questa volta non da moneta o transazione finanziaria sonante.

MARCO SFERINI

8 giugno 2023

foto tratta da Wikipedia

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