Le tre Piazzale Loreto da ricordare sempre

Milano, piazzale Loreto. Se lo cercate su Google Maps o semplicemente su una vecchia carta stradale della capitale economica d’Italia, ne troverete soltanto uno di luogo chiamato così. Non...

Mussolini arringa la folla nel 1930 con la mimica facciale tutta tesa al trittico: «Credere, obbedire, combattere»

Milano, piazzale Loreto. Se lo cercate su Google Maps o semplicemente su una vecchia carta stradale della capitale economica d’Italia, ne troverete soltanto uno di luogo chiamato così. Non ce ne sono altri. Eppure, se dalla geourbanistica alla storia, troveremo più piazze con quel nome. Più piazze che sono comunque, sempre e soltanto, la stessa piazza. Ci sono almeno tre piazzali Loreto che si susseguono nel corso del ‘900 e che arrivano fino a noi oggi lasciando divisi tanto gli storici quanto i politici e pure chi non fa parte né dell’una né dell’altra categoria.

La divisione è spesso verticale, non ha sfumature, perché parliamo di vicende che hanno letteralmente diviso l’Italia a metà dopo il 25 luglio 1943, quando il Gran Consiglio del Fascismo mise in minoranza Benito Mussolini e lo costrinse alle dimissioni da capo del governo e da condottiero della guerra a fianco dell’Asse formato con la Germania nazista di Hitler e il Giappone.

Per oltre vent’anni la dittatura aveva represso qualunque dissenso, qualunque critica anche velata e aveva imposto, con il consenso della monarchia sabauda, una forma totalitaria di amministrazione dello Stato che dal liberalismo giolittiano era scivolato, dopo la cosiddetta “vittoria mutilata” della Grande Guerra, nelle contraddizioni sociali sviluppate dal conflitto di classe. Una situazione esplosiva, che aveva allarmato la borghesia al punto di allontanarsi dal sostegno naturale verso le forze conservatrici cattoliche e liberali per approdare tra le fila – seppur esternamente – di un partito che si dichiarava, a suo modo, “rivoluzionario“: i Fasci italiani di combattimento che sarebbero presto diventati il Partito Nazionale Fascista (PNF).

La puntata dell’azzardo, quella sull’uomo forte che si presentava al momento sulla scena (pur essendo un ex socialista passato nel corso di una notte dal pacifismo all’interventismo più acceso), era ritenuta l’unica capace di scompaginare le carte della politica italiana e scuotere tanto il fronte conservatore e liberale quanto quello social-comunista che si fronteggiavano sulla base delle rivendicazioni proletarie.

Il deputato socialista Giacomo Matteotti

Fino al 25 luglio 1943, tra alti e bassi, con seri rischi di crisi interna, dall’omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti al fronte critico vero il “Patto d’acciaio” con la Germania di Adolf Hitler, il fascismo mussoliniano si automantiene e si rigenera attraverso un consenso multilaterale, ad una politica interna che ipocritamente pretenderebbe di tenere insieme gli inizi “sociali” del fascismo con le alleanze più strette con la grande industria italiana. I fascisti perseguono il mantenimento del potere ad ogni costo, anche a prezzo dei loro presunti ideali dimostratisi fin da subito, nel concreto, come cieca violenza da distribuire nei confronti di ogni oppositore, assolutamente privi di ogni intenzione dialettica tanto sul piano sociale quanto su quello politico.

Nel corso del ventennio, grazie ad una diffusa corruzione e ad altrettanto diffusi clientelismi, che qualcuno vorrebbe oggi dimenticare, facendo del revisionismo storico al contrario nelle file della destra neofascista (e non solo), il regime ha prosperato e ha permesso a molti gerarchi di arricchirsi. All’improvviso, nonostante i sentori di capovolgimento delle sorti della guerra tra il 1942 e il 1943 fossero stati opportunamente avvertiti da Ciano e annotati nei suoi famosi diari, il castello di tutto questo potere venne meno e chi ancora il 24 luglio 1943 portava con alterigia la camicia nera e le mostrine coi fasci littori si ritrovò all’alba del 26 luglio a doversi nascondere per evitare di essere preda di vendette e regolamenti di conti da troppo tempo attesi.

Con la caduta del fascismo la divisione verticale di cui si parlava all’inizio, si tradusse nelle due Italie che si formarono: al Centro-nord la Repubblica Sociale Italiana, stato fantoccio del Terzo Reich, ed al Sud la continuazione minuscola del Regno d’Italia nella sola Puglia al principio (i cosiddetti territori del “Governo del Re“, dove si era completata la fuga, definita giustamente “ingloriosa” nella “Badogliede” da Nuto Revelli, del sovrano e del governo retto da Badoglio), per estendersi progressivamente nel resto della Penisola liberata dagli anglo-americani.

La divisione verticale divenne anche una contrapposizione tra due Stati che non si riconoscevano vicendevolmente e che nel resto del mondo erano riconosciuti solo dai loro rispettivi alleati bellici; ma soprattutto diede alla guerra due volti diversi, pur facendo parte dello stesso contesto. Due Italie, due guerre dentro un grande conflitto, una grande tragedia che fece nascere una unità di popolo nella formazione della Resistenza antifascista. E’ questo il momento decisivo in cui la coscienza del ventennio mussoliniano emerge, viene esaminata, anche psicologicamente elaborata per molti che ne avevano fatto direttamente parte e che si erano ritrovati a disprezzarsi, una volta caduto il regime, per essere stati una rotella di quell’ingranaggio perverso, di quella dittatura sprezzante tutti i diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino.

La Resistenza è madre della Lotta di Liberazione, chiama gli italiani a scegliere da che parte stare, prima ancora del bando di Graziani che proclama la nascita dell’esercito di Salò: si rifà ai tanti antifascisti che sono stati uccisi per ordine di Mussolini o dei suoi gerarchi. Da Matteotti ai fratelli Rosselli, da Antonio Gramsci a Piero Gobetti, la nuova fase della lotta contro il fascismo repubblicano che tenta di ridarsi una verginità, quasi non avesse mai avuto a che fare né con la monarchia né col più spietato capitalismo dell’epoca, mostrandosi amico degli ultimi, degli oppressi, dei lavoratori. Ma la nuova sinfonia, suonata da Mussolini dal Partito Fascista Repubblicano guidato da Pavolini,non attacca, trova sempre meno orecchie che le prestino attenzione più avanza la guerra, più il fronte sale per la Penisola e arriva a lambire la Pianura Padana con la “Linea Gotica” nell’estate del 1944.

Il fascismo attende la sua inevitabile fine, così come il quadriumvirato nazista che circonda Hitler aspetta di sapere se cadrà nelle mani degli americani o dei sovietici. Non è la stessa cosa e lo sanno bene Himmler, Speer, Goebbels e Göring che iniziano percorsi differenti, si distanziano tra loro e cercano una via di fuga opposte. Chi per mettersi in salvo, chi per assicurare i propri beni (frutto di ruberie ai danni non solo del popolo tedesco), chi per risparmiare alla Germania l’ultimo ordine omicida e annientatore del Führer: fare terra bruciata di tutte le infrastrutture, lasciando macerie su macerie e niente altro. Fu Albert Speer che ebbe questo scrupolo: evitare al suo Paese l’autodistruzione, considerando quella portata dalla guerra sufficiente per fare della Germania un paese medievale…

In Italia non esiste uno Speer che si premuri solamente di evitare al Paese ulteriori sciagure. Galeazzo Ciano, paradossalmente, può somigliargli nel suo schierarsi contro Mussolini, al fianco di Grandi. Ma è troppo tardi. Lo è per Speer (che tenterà anche di assassinare Hitler senza riuscirci…), lo è per Ciano. Nessuno può salvare ciò che rimane del terrore nazista e di quello fascista.

Achille Starace (in basso), circondato dai partigiani che lo hanno appena catturato a Milano. Sarà fucilato dopo poche ore

Il cortile della cancelleria del Reich e piazzale Loreto sono gli approdi finali della tragedia bellica in Europa. Nel primo i russi trovano carbonizzati i cadaveri riconoscibili di Magda e Joseph Goebbels (e dei loro sei figli uccisi col cianuro) e quelli meno identificabili di Eva Braun (diventata Eva Hitler poche ore prima del suicidio) e del dittatore tedesco.

Nel secondo vengono esposti alla folla milanese, che li ingiuria, li calpesta, li sputa e li maledice, i cadaveri di Mussolini, della sua amante Claretta Petacci, del gerarca Nicola Bombacci, del segretario del PNR Alessandro Pavolini e di Achille Starace, già segretario del PNF, che finirà fucilato dai partigiani dopo essere candidamente uscito da casa la mattina del 29 aprile in tuta da ginnastica credendo di riuscire ad apparire un cittadino comune e non l’uomo che dal balcone di Palazzo Venezia invitava la folla al grido di: “Saluto al duce!” e controllava meticolosamente la propaganda del regime spedendo le celeberrime “veline” con le “raccomandazioni” (le virgolette sono assolutamente necessarie) per direttori di quotidiani, giornalisti e riviste varie.

Mentre il cortile della cancelleria del Terzo Reich è stato più che altro il luogo dove si è concentrata l’indagine storiografica sulle ultime settimane di vita del tiranno rinchiuso nel bunker, dove si è favoleggiato di presunte fughe di Hitler attraverso la Danimarca per finire in America del Sud, magari in Argentina dove erano riparati molti nazisti che hanno continuato per lungo tempo a fare fortuna e a ripararsi dalla giustizia internazionale (Adolf Eichmann è un emblema della casistica di nomi elencabili…), Piazzale Loreto è divenuto da subito il simbolo di un dibattito all’interno del fronte antifascista stesso.

Era opportuno sfregiare i cadaveri di Mussolini, della Petacci e dei gerarchi fucilati? Era necessario appenderli a testa in giù al distributore? Era tutto questo degno dell’alta moralità di una Resistenza antifascista che aveva dimostrato una conduzione della lotta mai scesa al livello imposto da una guerra mondiale e civile in Italia dalla crudele repressione del regime ancora più cupo di Salò rispetto al ventennio?

Le domande che si sono susseguite nel tempo non hanno trovato una risposta univoca né sui fatti di Piazzale Loreto e tanto meno sul ruolo stesso dell’antifascismo, sulla sua essenza e sulla sua necessità per tutto un Paese che era ridotto a pezzi, frantumato non solo dai bombardamenti ma dalle tante ferite inflitte alla popolazione dai carnefici delle brigate nere, delle SS, dei troppi opportunisti e delatori di ogni età, ragazzi o adulti che fossero, che avevano scelto di schierarsi dalla parte sbagliata. Sì, la parte sbagliata. Quella che avrebbe voluto un’Italia post-bellica ancora fascista, legata al patto con la Germania hitleriana, in stretto rapporto amichevole con tutti i fascismi nati dopo la primogenia italiana: dalla Spagna di Franco all’Argentina di Peron.

Piazzale Loreto divise, divide, indignò ed indigna ancora oggi chi ha buon gioco nel raccontare soltanto una parte della storia della Seconda guerra mondiale, della Resistenza italiana e della Lotta di Liberazione. Per questo non può esistere una “memoria condivisa” se non all’interno dei valori dell’antifascismo e non fuori da essi: la condivisione della memoria non può avvenire sulla base della conciliazione tra ex fascisti o moderni fascisti sovranisti travestiti per l’occasione da finti democratici di destra e antifascisti.

I quindici partigiani trucidati dai fascisti il 10 agosto 1944 e lasciati come “monito” per i milanesi a Piazzale Loreto

Le parole stesse ce lo dicono: fascisti, antifascisti. Sono due espressioni sociali, politiche storiche e attuali antitetiche e quindi inconciliabili. Così sono inconciliabili le tre Piazzale Loreto cui abbiamo fatto cenno all’inizio di questa storia: c’è un Piazzale Loreto del 10 agosto 1944 che, nella fotografia dei morti che sono a terra, accatastati come pezzi di legno, ritrae quindici partigiani trucidati dai fascisti per rappresaglia. Una ritorsione che obbediva ai comandi di Kesserling: dieci italiani per ogni tedesco ucciso. Ma nell’attentato, che peraltro il Comandante Giovanni Pesce (“Visone“) smentì fosse partito da settori della Resistenza italiana, che colpì un camion tedesco in viale degli Abruzzi non morì alcun militare germanico ma civili milanesi.

Fu un tremendo atto dimostrativo ingiunto alla popolazione: le guardie repubblichine presidiarono per alcune ore la piazza, poi lasciarono lì quei corpi, guardati a vista, senza che vi si potessero avvicinare nemmeno i famigliari. Per quella strage, troppo spesso dimenticata, non pagò mai nessuno davanti ai tribunali della nuova Repubblica Italiana. Ma rimase impressa nella mente dei Resistenti di allora che scelsero proprio Piazzale Loreto per esporre alla popolazione i cadaveri del dittatore, della sua amante e degli ultimi gerarchi che l’avevano seguito nella fuga verso la Svizzera: lui travestito da soldato tedesco per passare il confine, mentre tradiva anche gli ultimi seguaci, come Pavolini, che si chiusero in un blindato e si ostinarono ad aprire il fuoco contro i partigiani che li circondavano sulle rive del lago di Como.

Eccola la seconda Piazzale Loreto, quella degli altri cadaveri: fascisti che portarono l’Italia al disastro, che causarono milioni di morti, civili e militari; che mandarono a morire più di una generazione di italiani per le ambizioni imperialistiche di una tirannia proclamatasi indebitamente “erede dell’Impero romano“, fregiatasi delle immagini dei più democratici e libertari patrioti italiani, cannibale nei confronti di qualunque cosa potesse accreditarla come esaltatrice dell’italianità, della romanità antica, dell’Urbe eterna dei “colli fatali“.

Ma, nonostante le domande si accavallassero e gli scrupoli morali sorgessero insieme ai dubbi, vi era comunque la consapevolezza che la rabbia popolare era la conseguenza di tutto quanto il fascismo e Mussolini avevano conquistato per l’Italia durante venti anni di dittatura e cinque di carneficina mondiale: soprusi, bastonature, olio di ricino, discriminazioni razziali, confino, esilio, omicidi singoli e di massa, sindacati soppressi, partiti antifascisti fuori legge, subordinazione di ogni pensiero, di ogni morale a quella fascista, totalitarismo, terrore, torture, stragi.

Questo è stato il “patriottismo” fascista: portare il Paese alla completa degradazione morale, civile, materiale. Per questo il Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia, prontamente, emise un comunicato stampa e radiofonico che vale la pena riportare qui come documento storico che bene sintetizza i fatti della seconda Piazzale Loreto:

“Il CLNAI dichiara che la fucilazione di Mussolini e complici, da esso ordinata, è la conclusione necessaria di una fase storica che lascia il nostro Paese ancora coperto di macerie materiali e morali, è la conclusione di una lotta insurrezionale che segna per la Patria la premessa della rinascita e della ricostruzione. Il popolo italiano non potrebbe iniziare una vita libera e normale – che il fascismo per venti anni gli ha negato – se il CLNAI non avesse tempestivamente dimostrato la sua ferrea decisione di saper fare suo un giudizio già pronunciato dalla storia.

Solo a prezzo di questo taglio netto con un passato di vergogna e di delitti, il popolo italiano poteva avere l’assicurazione che il CLNAI è deciso a proseguire con fermezza il rinnovamento democratico del Paese. Solo a questo prezzo la necessaria epurazione dei residui fascisti può e deve avvenire, con la conclusione della fase insurrezionale, nelle forme della più stretta legalità.

Dell’esplosione di odio popolare che è trascesa in quest’unica occasione a eccessi comprensibili soltanto nel clima voluto e creato da Mussolini, il fascismo stesso è l’unico responsabile.

La fine della dittatura: i corpi di Mussolini, della Petacci, di Pavolini, Bombacci e Starace appesi al distributore in Piazzale Loreto per sottrarli all’ira della popolazione

Il CLNAI, come ha saputo condurre l’insurrezione, mirabile per disciplina democratica, trasfondendo in tutti gli insorti il senso della responsabilità di questa grande ora storica, e come ha saputo fare, senza esitazioni, giustizia dei responsabili della rovina della Patria, intende che nella nuova epoca che si apre al libero popolo italiano, tali eccessi non abbiano più a ripetersi. Nulla potrebbe giustificarli nel nuovo clima di libertà e di stretta legalità democratica, che il CLNAI è deciso a ristabilire, conclusa ormai la lotta insurrezionale.

Il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia

Achille Marazza per la Democrazia Cristiana
Augusto De Gasperi per la Democrazia Cristiana
Ferruccio Parri per il Partito d’Azione
Leo Valiani per il Partito d’Azione
Luigi Longo per il Partito Comunista Italiano
Emilio Sereni per il Partito Comunista Italiano
Giustino Arpesani per il Partito Liberale Italiano
Filippo Jacini per il Partito Liberale Italiano
Rodolfo Morandi per il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria
Sandro Pertini per il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria”.

La terza Piazzale Loreto è quella di oggi: senza più cadaveri, trafficata, tornata da oltre settant’anni a quella normalità che definiamo tale e che è fatta ancora di ingiustizie sociali, di prevaricazioni, di storture che sono tipiche delle democrazie: anche esse conoscono repressione del dissenso, violazione delle norme costituzionali fondamentali (basti pensare al G8 di Genova…). Dal dopoguerra ad oggi i conflitti di classe sono stati trattati sovente con la forza, mediante azioni di polizia, carcerazioni e morti che, per l’appunto, abbiamo sempre definito “di Stato“: i morti di Reggio Emilia, Saverio Saltarelli, le tante libertà negate ai lavoratori nelle fabbriche, le lotte operaie del biennio 1968-69, gli anni ’70, i tentativi di golpe da parte dei neofascisti mischiati ai servizi segreti deviati… Tutta la “notte della Repubblica” che, per quanto nera possa essere e sembrare è sempre poco rispetto alla tragedia del fascismo, della guerra, dell’occupazione nazista dell’Italia.

Sono tre le Piazzale Loreto da ricordare. Ricordiamole sempre tutte.

MARCO SFERINI

25 aprile 2020 / aggiornato, 8 ottobre 2020


foto tratte da Wikimedia Commons / “Mussolini”, da Wikimedia Commons
In copertina:
Aligi Sassu, “Martiri di Piazzale Loreto, (1944)“, particolare. Aligi Sassu dipinse questo quadro sotto l’impressione della fucilazione dei quindici partigiani uccisi gruppo Oberdan delle Brigate Muti il 10 agosto 1944. Il dipinto porta anche il nome La guerra civile (cfr. scheda). Fu acquistato nel 1952 dalla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, dove è tuttora esposto

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