Gaffe o lapsus rivelatore che sia stata, la frase (non diremo il ragionamento) di Ignazio La Russa sul presidente della Repubblica è l’ennesima che il presidente del senato ha poi dovuto precisare, correggere, smentire. Eppure qui non eravamo dalle parti dei nazisti spacciati per banda musicale, stavolta la frase era corretta.

Nel senso che diceva la verità. Perché sì, «l’elezione diretta del presidente del Consiglio potrebbe ridimensionare i poteri del capo dello stato». Potrebbe anzi potrà certamente, perché il presidente della Repubblica dopo l’approvazione della riforma costituzionale proposta dal centrodestra sarà molto diverso da quello che è oggi. Assai più debole. E non si tratta di un effetto collaterale, ma dell’obiettivo preciso della riforma.

Qualora la riforma fosse approvata, il «nuovo» capo dello stato non avrebbe più peso nella scelta dell’incaricato di formare il governo. Figurarsi quanto potrebbe fare il presidente nell’indicazione dei ministri (non è routine, chiedere a Di Maio e a Renzi che volevano imporre altre scelte ai presidenti Mattarella e Napolitano e prima di loro ci tentò Berlusconi).

Il presidente della Repubblica nel suo lavoro informale di raccordo tra le istituzioni non potrà più mettere sul piatto la possibilità di sciogliere le camere, che è da sempre la carta migliore – quasi l’unica – che ha nel mazzo quando deve far valere il suo punto di vista.

La moral suasion intanto esiste in quanto il presidente ha voce in capitolo sui destini della legislatura, se perde questa voce nessuno lo ascolta. Senza contare che la riforma pretende di limitare il capo dello stato anche nella scelta del «secondo premier», introducendo di fatto quel vincolo di mandato per i parlamentari che la Costituzione da sempre vieta.

Sono tutte novità sostanziali che smontano facilmente l’argomento da avvocaticchio di la Russa («nessun articolo che riguarda il presidente della Repubblica è stato toccato»). Ma l’argomento più forte che annuncia il «ridimensionamento» del capo dello Stato è ancora un altro, ed è già all’opera tutte le volte in cui Giorgia Meloni quando si intravede (appena) qualche difficoltà con il Quirinale – per esempio sulla giustizia o sull’Europa – chiarisce di essere lei quella «scelta dagli italiani».

La distanza che ancora c’è tra l’argomento retorico e la realtà – quella per cui Meloni è a palazzo Chigi in quanto indicata da una maggioranza parlamentare che è tale solo grazie a un abnorme premio elettorale – è proprio quella che la riforma costituzionale vuole cancellare.

Tra una carica eletta dal popolo e un’altra eletta indirettamente non ci sarà partita, la «Costituzione materiale», come già annuncia La Russa, cambierà e dovrà adeguarsi al vento plebiscitario.

Ieri dunque il presidente del senato prima ha detto e poi si è contraddetto. Gli capita tanto spesso che ormai siamo abituati ad aspettare il secondo tempo dei suoi annunci. L’uomo è diventato un problema anche per la presidente del Consiglio, che però non ha né la voglia né probabilmente ancora la convenienza di richiamarlo.

Può solo sperare che si contenga. L’imbarazzo aumenta quando La Russa prova a convincerci che «il presidente della Repubblica avrà sempre un vantaggio sul presidente del Consiglio perché lui dura sette anni e l’altro solo cinque» e poi racconta di aver imparato questa fondamentale lezione di matematica da «un grande costituzionalista» (Marcello Pera, un filosofo).

Oppure quando garantisce che non c’è niente da temere con il premierato, prova ne sia che «non credo che se ne preoccupi nessun presidente della Repubblica passato». Il che è sicuramente vero, ma solo perché sono tutti morti.

Tra far trapelare per incontinenza le proprie cattive intenzioni e rivendicarle apertamente c’è spesso una distanza minima. La Russa è in questa stretta terra di confine, altrimenti detta «ci è o ci fa?». Peccato però che la destra abbia deciso di aprire la campagna per il referendum sulla riforma, prima ancora di cominciare a discuterla in parlamento.

Quando è chiaro che il ruolo del capo dello Stato sarà il perno di tutta la campagna elettorale, quella per il Sì come quella per il No. Il presidente La Russa, in tutto questo, è ancora la seconda carica dello stato: il fatto che sia lasciato libero di lasciarsi andare nei confronti della prima (correggendo, per quel che vale) è una minaccia aperta agli equilibri istituzionali.

È una violazione continua delle regole e delle garanzie che diventerà un problema sempre più grande. Anche per lo stesso Mattarella.

ANDREA FABOZZI

da il manifesto.it

foto: screenshot ed elaborazione propria