Com’era facilmente prevedibile, il movimento guidato Jair Messias Bolsonaro, uscito tutt’altro che ridimensionato dalle elezioni, non ha smobilitato, né è stato «normalizzato» dal naturale dispiegarsi della dialettica parlamentare. Al contrario, abbiamo assistito alla progressiva radicalizzazione di un movimento che, potendo contare su ramificate complicità istituzionali, simpatie tra le Forze Armate, grandi risorse economiche, oltre alla formidabile rete di coordinamento organizzativo e morale delle chiese evangeliche, non ha mai smesso di invocare l’intervento militare.

I mesi che hanno preceduto l’insediamento del nuovo Presidente sono stati così segnati dall’intensificarsi di una capillare mobilitazione di chiaro segno golpista. L’offesa al cuore istituzionale di Brasilia, uno spazio architettonico pensato dal grande Oscar Niemeyer proprio per simboleggiare il rapporto organico di unità e distinzione tra i tre poteri fondamentali dello Stato brasiliano, è solo l’ultimo atto di un’unica rappresentazione.

L’assalto alle istituzioni democratiche, pianificato con cura nelle settimane precedenti, ha potuto contare sul sostegno di una fitta rete di facoltosi soggetti economici e imprenditoriali legati al presidente uscente, le cui responsabilità politiche sono evidenti.

A prescindere dallo sgomento, tre importanti dati politici sembrano emergere: 1) nonostante le continue sollecitazioni a prendere il potere (per ora), le Forze Armate hanno dimostrato lealtà costituzionale; 2) i tre poteri fondamentali hanno reagito alla minaccia sovversiva con un’unica voce; 3) la società democratica brasiliana si è immediatamente mobilitata a ogni livello, isolando e delegittimando ogni tentativo golpista.

Tutto questo non significa che la partita sia chiusa, al contrario, in un Paese diviso come una mela e storicamente sempre sull’orlo della guerra civile tutto è possibile. Al di là delle recenti responsabilità, nel corso dei quattro anni alla guida del Paese, Bolsonaro ha cercato di politicizzare ogni spazio della vita civile, chiamando i suoi sostenitori, nelle strade come sui social media, a una guerra culturale permanente non solo contro il pensiero critico, ma verso gli stessi principi basilari di convivenza democratica, fino a mettere in discussione il risultato delle elezioni e chiederne l’annullamento.

Il mancato riconoscimento formale della vittoria di Lula, la legittimazione delle manifestazioni antidemocratiche nelle settimane passate e la mancata consegna della fascia presidenziale il giorno dell’insediamento, rientrano in questa molteplice strategia di delegittimazione.

Il bolsonarismo è espressione di un universo ideologico incompatibile con qualsiasi paradigma costituzionale di «pluralismo ragionevole» e di giustificazione pubblica delle concezioni di giustizia. Non si tratta appena di una tendenza conservatrice, ma di una visione fondamentalista poco propensa a riconoscere il significato universale e inviolabile di quei valori essenziali che, in una moderna società democratica, rappresentano il comune fondamento etico a ogni pratica di pacifica tolleranza tra opposte visioni del mondo in competizione.

Come il primo fascismo, il bolsonarismo teorizza e pratica l’idea della conquista militare, ricorrendo ai metodi dell’assalto, dell’imboscata e del terrorismo squadristico, con la dichiarata ambizione di cancellare dalla vita politica nazionale nemici e avversari, anche solo potenziali. Descrivendo la carica antiparlamentare della piccola borghesia irregimentata dal nascente fascismo, in un celebre articolo del 2 gennaio 1921 (“Il popolo delle scimmie”), Gramsci sottolineò alcuni aspetti di estrema attualità, rilevando come la caratteristica più marcante di questo movimento risiedesse anzitutto nella volontà «sostituire la violenza privata all’autorità della legge», esercitandola «caoticamente e brutalmente» nella sollevazione di strati sempre più estesi di popolazione radicalizzata contro lo Stato e le sue regole.

In ciò consisteva l’essenza del sovversivismo reazionario provocato dalla crisi organica e di egemonia scatenate dalla Grande guerra. Per quanto interpretare tutto attraverso la chiave universale del fascismo sia un errore grossolano, che appiattisce ogni cosa, senza permetterci di cogliere gli elementi inediti e le profonde discordanze storiche tra i fenomeni esaminati, è indubbio che al fondo del bolsonarismo si possano riscontrare, insieme all’eredità della tradizione coloniale e delle passate dittature militari, elementi emblematici di profonda fascistizzazione della cultura politica conservatrice.

Con questa svolta, in un quadro di crescente coordinamento internazionale della destra neo-autoritaria di mercato, non solo il Brasile, ma tutto il mondo dovrà fare i conti nei prossimi anni.

GIANNI FRESU
Professore di filosofia politica UFU (Minas Gerais/Brasil), Ricercatore Università di Cagliari, socio fondatore ed ex presidente International Gramsci Society Brasil, coautore di “Gramsci in Brasile” (ed Meltemi)

da il manifesto.it

Foto di Vinícius Vieira ft