Ipocrisie ed orrori: frociaggine pontificia e bimbi inceneriti a Rafah

Senza mettere insieme il sacro e il profano, la vita e la morte, il diritto e l’abuso, la giustizia e la legge del più forte, la tentazione del parallelismo...

Senza mettere insieme il sacro e il profano, la vita e la morte, il diritto e l’abuso, la giustizia e la legge del più forte, la tentazione del parallelismo è comunque difficilmente trascurabile. Perché in apparenza che c’entra lo sproloquiare omofobo del pontefice sulla “frociaggine” presente nei seminari della Chiesa cattolica con il brutale assassinio di decine e decine di civili palestinesi nei campi profughi di Rafah?

Apparentemente nulla. Ma, siccome la legge del battito della farfalla ci dice che, passaggio dopo passaggio, da quel semplice naturale gesto etereo può nascere addirittura una tempesta, un uragano, perché tutto in questo mondo si tiene e nulla è considerabile a prescindere da ciò che vi è compreso, anche se lontano migliaia di miglia, proviamo a spiegare il parallelismo che ci è bizzarramente comparso nei pensieri.

Ogni paragone, ogni raffronto, ogni tentativo quanto meno tale di stabilire un nesso tra due situazioni, così come tra due persone o cose, ha bisogno di un punto di riferimento, di congiunzione, di equilibrio: lì si intersecano le differenze e si trova il minimo comune denominatore, la somiglianza, la similitudine. Per quanto ci riguarda, qui il fulcro della questione è l’ipocrisia. Del potere religioso, di quello politico, degli Stati, delle comunità che si atteggiano a luoghi di inclusione e comprensione, mentre ne sono l’esatto contrario.

Il seminario è, probabilmente, un rifugio per molti giovani che, sentendo la vocazione profonda della credenza in Dio, intendono studiare per divenire un giorno sacerdoti. Un percorso indubbiamente impegnativo, fatto di quelle che noi laici e mis/non credenti potremmo definire “rinunce“, “sacrifici” e che, invece, per questi ragazzi sono il contesto naturale entro cui formare la loro cultura, il loro essere, l’essenza della nuova vita che li attende.

Un rapporto col resto del mondo fatto di condivisione, compenetrazione degli affetti e dei sentimenti e che la Chiesa, tuttavia, limita là dove questi stessi si rivolgono a persone dello stesso sesso. È ovvio che in un seminario le presenze maschili sovrabbondano e le simpatie possono, se supportate da un istinto ancestrale che è culla del desiderio, tramutarsi anche in amore, in affetto che travalica la pura e semplice amicalità.

Bergoglio e i papi prima di lui sapevano benissimo che l’omosessualità è una caratteristica dell’animalità, quindi anche dell’umanità che vi è compresa; quindi sapevano e sanno che è impossibile scinderla a colpi di decreti, di anatemi, di giudizi fintamente condiscendenti, di benevoli rimbrottamenti a non deviare dal cammino intrapreso, a reprimere quindi l’istintività del desiderio nel nome dei precetti della fede.

E siccome tutto questo contrasta proprio con la dottrina della Chiesa, un compromesso, almeno pubblicamente, tocca trovarlo, tentarlo, proporlo e spacciarlo come innovazione moderna. Una apertura delle menti, dei cuori, della grande bontà della Curia romana che, ancora protesa più che altro a venerare le icone di Joseph Ratzinger e le sue stigmatizzazioni sul modernismo, sul relativismo e sull'”amore deviato” rappresentato proprio da quello tra due persone dello stesso sesso, va a scontrarsi con quello che realmente ne pensa Bergoglio privatamente.

Ufficialmente gli omosessuali sono tutti figli di Dio e vanno capiti, compresi, accolti  e non giudicati. Privatamente, nei consessi vescovili, dove si decide come regolamentare l’accesso ai seminari, in un complicato lavoro di riforma che procede da lungo tempo, il linguaggio del papa diviene triviale, ben oltre il boccaccesco: la “frociaggine” di cui – dicono le cronache – si sarebbe scherzato con gli alti prelati, sarebbe stata addirittura un fraintendimento del termine italiano per un pontefice che viene “dalla fine del mondo“.

Ma riesce molto difficile attribuire a questa interpretazione raffazzonata, col fine di minimizzare lo scivolone grottescamente volgare ed omofobo del pontefice, un minimo di attendibilità e verità. Più, verosimilmente Francesco ha detto quello che pensava: ci sono troppi froci nei seminari e non è il caso di aumentare la percentuale di costoro. La Chiesa li ama pubblicamente e li teme privatamente.

Perché, da un lato ha paura dell’emersione di un fenomeno che possa mutare i rapporti di forza delle dottrine su cui si regge il magistero romano; dall’altro stabilisce un parallelismo immediato tra omosessualità e pedofilia e, quindi, arriva a conclusioni che sono esagerate anche se non del tutto prive di fondamento. Proprio le forzature e le imposizioni dettate dalle rigide regole del seminariato, hanno dato seguito spesso a quelle precondizioni per abusi che si sono consumati ai danni degli studenti prima e dei fedeli poi.

La meccanicistica equazione tra omosessualità e pedofilia è soprattutto la conseguenza di tanti rapporti tra sacerdoti e subordinati o fedeli, sempre in età estremamente giovane, che, tra le altre ragioni su cui potrebbe indagare la psicoanalisi caso per caso, hanno avuto origine nella repressione dei sentimenti, dei desideri, nella solitudine interiore, nella costruzione della frustrazione della scelta tra fede e sentimenti, tra due desideri che la Chiesa ha dichiarato inconciliabili. Amare chi si vuole ed essere, allo stesso tempo, ministri di un culto religioso.

Le parole del papa, quindi, non devono poi così tanto sorprendere, perché, pur non essendo elegantemente algide e raffinate tanto quanto pungenti e presuntuosamente crudeli come quelle di Ratzinger, vanno comunque dritte al cuore del millenario problema che la Chiesa cattolica ha con i sodomiti. Basta che non siano loro stessi, che non dimostrino amore verso nessuno che possono e vogliono amare, hanno il diritto (e il dovere) di amare Dio nell’obbedienza al pontefice e ai loro superiori.

Basta che si annullino nei loro più belli slanci di istintività, soffocando le voci che gli vengono dall’interiorità più bella perché quella nascosta che ci parla mediante le pulsioni affettive che non sono dettate da alcun ragionamento, i seminaristi, i preti e, perché no, anche le suore, possono continuare a stare nella grande famiglia universale della Chiesa. Il prezzo da pagare è la contorsione emotiva che si avvita su sé stessa, che avviluppa il tutto in un indistinguibile confusione di voglie che trascendono da sé stesse e pervertono.

Rafah. Campi profughi in un sud della Striscia di Gaza dove non c’è posto per la salvezza dalla guerra totale di Netanyahu, Gallant e Gantz contro il popolo palestinese. I missili e le bombe colpiscono dove Tsahal dice di aver individuato due alti capi di Hamas. La strage, nemmeno a dirlo, seguendo un triste, orrendo copione di morte, si ripete: le tende improvvisate e quelle tenute da timide cordicelle si incendiano. Muoiono tra le fiamme decine di bambini, anziani, donne, malati. E forse anche i due capi di Hamas.

Quaranta, cinquanta, sessanta morti. Difficile anche contarli ormai. Ma restano cadaveri sfigurati su un terreno dove non c’è un filo d’erba, dove l’odore della carne che continua a consumarsi deve essere qualcosa che ti entra nelle narici e non ne esce mai più. Si inchioda nel cervello peggio di una idea fissa, perché è la realtà che supera ogni immaginazione e che oltrepassa tutti i confini dell’altra ipocrisia che qui raccontiamo. L’ipocrisia: il fulcro, il baricentro del parallelismo inizialmente citato.

Per la Chiesa di Bergoglio si è accoglienti esternamente ed escludenti internamente. Per Israele si è democratici entro i confini dello Stato ebraico, mentre al di là si diviene spietati repressori di un popolo che vorrebbe essere libero e che, invece, è costretto dalle reciproche follie di Hamas e di Netanyahu a subire lo sterminio di massa in un conflitto che non finisce nonostante le risoluzioni dell’ONU e gli ordini della Corte internazionale dell’Aja. L’ipocrisia è il collante di una manifestazione del potere ambivalente e, questa sì, perversa.

Per mantenersi in quanto tale, corrispondente di tutte le prebende che gli sono garantite da millenni di storia l’uno e da una ottantina di anni di consolidamento di uno Stato che ha tradito la sua propria origine novecentesca, dopo la tragedia immane dell’Olocausto e della Seconda guerra mondiale, il potere scende ai più vili compromessi con sé stesso. E fa molto in fretta a farlo, con una facilità impressionante. Perché non ha scrupoli, in quanto è esso stesso assenza, vuoto pneumatico di un’etica che utilizza solamente negli altrui confronti.

Altrimenti che ipocrita sarebbe? E in questa ipocrisia sostanziale, di cui si nutre l’Occidente dalle immaginarie e revisionisticamente antistoriche radici “giudaico-cristiane“, soffrono da un lato e muoiono dall’altro decine di migliaia di innocenti che hanno cercato un senso alla propria esistenza nel dedicarsi all’amore, all’affetto, all’empatia molto più grande di quella che avrebbero potuto provare entro i loro microcosmi egoistici. Quelli imposti da una società dei consumi in cui si logorano per primi i rapporti animal-umani.

In questa diffusa rete delle truculenze spacciate per “errori” ed “effetti collaterali” delle guerre non propriamente dichiarate, prendono fuoco corpi ed anime di bambini che sono la quintessenza di un senso di colpa che solo una parte del mondo prova. Fanno finta di niente, davanti a tanto orrore, i grandi capi di Stato, i dirigenti intercontinentali di alleanze atlantiche che minacciano la Russia con le proprie armi atomiche.

E fanno finta di niente tutti coloro che dicono di volere la pace per la martoriata Ucraina e per il popolo palestinese, ma poi accettano, condividono e sostengono pregiudizi, ghettizzazioni e repressioni entro le mura dei loro seminari, creando sofferenze che annichiliscono le singolarissime specificità caratteriali di ognuno, vere ricchezze che possediamo e che ci distinguono e ci rendono unici. L’uniformità deve essere la regola. La finzione da applicare come etichetta ad un mondo a misura di potere.

A misura di religione, a misura di un Dio con la maiuscola che è invocato tanto dal papa quanto dai rabbini capi di Israele nella guerra contro i palestinesi o, per meglio dire, come vengono indotti a pensare i cittadini – soprattutto i più giovani – dello Stato ebraico, contro gli arabi. Al di fuori delle proprie incoscienze ci sono solamente nemici e relativismi da contrastare. E non bastano più le parole del papa sulla pace. Non bastano più quelle dell’ONU o dell’Aja contro i crimini del governo di Tel Aviv.

L’ipocrisia cui il potere si appoggia per non sfracellarsi al suolo, basta al momento per vivacchiare sulla pelle dei popoli, per resistere ai mutamenti considerati troppo moderni in quanto a morale, famiglia, amore; così come basta per giudicare gli altri antisemiti e sé stessi sempre e soltanto il “popolo eletto” da Dio con tutte le ragioni del caso. Pretesti stucchevoli che però si intrecciano con gli interessi economici e finanziari che hanno bisogno anche di questi stratagemmi per non capovolgersi nell’opposto.

Certo, il papa ci piace quando parla di pace. Come uomo che ha una grande influenza su centinaia di milioni di individui nostri simili. Ci piace meno quando rampogna una signora che ha il torto di volere bene al suo cagnolino o quando parla di troppi froci nei seminari. Netanyahu invece proprio non ci piace per niente. C’è quindi una differenza tra questi due signori, tra questi due poteri. Ma ci sono anche delle similitudini che emergono da quella ipocrisia che non può però separarsi dalle sue contraddizioni.

Su quelle bisogna fare leva per scardinare i falsi costrutti religiosi da un lato, politico, militari ed economici dall’altro. La pace senza i diritti civili e sociali non basta a calmare le guerre. Tutte, ma proprio tutte. Comprese quelle contro chi ha il solo torto di amare chi non dovrebbe amare, e quelle contro chi ha il torto di essere un bambino in una tenda di Rafah al centro di un bersaglio disegnato dalla democrazia israeliana.

MARCO SFERINI

28 maggio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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