Il determinismo irrisolvibile e la prigione della “volontà”

L’inconoscibilità dell’essere, di ciò che noi affermiamo esista “realmente“, quindi abbia il carattere di una oggettività materiale che arriva ai nostri sensi, si articola nel cammino del pensiero umano,...

L’inconoscibilità dell’essere, di ciò che noi affermiamo esista “realmente“, quindi abbia il carattere di una oggettività materiale che arriva ai nostri sensi, si articola nel cammino del pensiero umano, soprattutto di quello occidentale, in declinazioni molto differenti fra loro.

Ciò grazie ad interpretazioni che si sono susseguite nel corso di millenni in cui è cambiata tanto la struttura socio-economica del mondo quanto, quindi, la percezione che abbiamo avuto ed abbiamo dei fenomeni che ci circondano, ci compenetrano e contribuiscono a fare di noi qualcosa di molto diverso da quello che eravamo tanto uno quanto dieci secoli fa.

Il rapporto tra il nostro tempo di vita e quello continuo, ininterrotto, del mondo in cui ci troviamo ad esistere, si risolve (se così si può dire…) in un soggettivismo delle emozioni che, tuttavia, come avrebbe potuto osservare dal suo punto di vista David Hume, attraverso l’impressione ci consente di avere chiarezza, distinzione, forza ed evidenza delle cose, delle persone, dei fenomeni che riguardano la materialità del tutto.

Diversamente, le idee sono invece per il filosofo edimburghese le immagini delle impressioni e, da una oggettività singolare si passa quindi ad una soggettività altrettanto singola che sbiadisce il primo approccio che noi abbiamo con l’esistente.

Gorgia avrebbe forse annuito e condiviso questa teorizzazione, questa classificazione di categorie conoscitive di un gnoseologismo volto ad affidare di più alla percezione tattile, visiva, olfattiva e uditiva, quindi alla sensorialità umana, il tramite della conoscenza immediata e più vera; diffidando quindi dell’elaborazione concettuale successiva, perché troppo viziata dal limite dell’interpretazione, dell’elucubrazione che, come smentire Hume in questo caso, spesso e volentieri si articola sul niente, ossia su idee delle idee.

Rimane però la questione della conoscibilità dell’essere, quindi di tutto quello che esiste. Noi compresi.

Già per questo ci troviamo in un ambito della metafisica che, tanto per stabilire dei paragoni e delle interconnessioni temporali tra una declinazione ontologica del passato e una della modernità, contrasta, ad esempio, con il materialismo storico marxiano.

Se ci addentriamo in una disputa filosofica sull’esistente e sull’esistenza in quanto tali, domandandoci se tutto questo ha o deve avere in qualche modo un significato (almeno per noi animali umani che siamo autocoscienti e incoscienti al tempo stesso), sappiamo che lo facciamo a rischio e pericolo di percepire sempre meno e di idealizzare sempre di più. Hume ci avrebbe ammonito in tal senso. E con qualche ragione.

Dobbiamo avere ben chiaro che l’indagine storica sull’esistenza e sul cammino umano è affidata alla materialità tanto dei corpi quanto delle situazioni in cui questi si trovano.

Con tutte le loro emozioni, con ogni singola caratteristica espressa da quel grado di raggiungimento della complessità materiale che noi ci troviamo ad essere e a viverci in quanto tali, dentro il buio di un mistero sempre più fitto che la scienza non può risolvere se non constatando che ad ogni azione corrisponde una reazione e che tutto si muove secondo precise leggi di sviluppo: tanto biologico e naturale quanto economico, politico e sociale.

Cercare di dare una risposta al perché dei mutamenti dei rapporti tra le genti, iniziando da quelli di forza determinati dalla qualità della vita, a sua volta data dal possesso di ricchezze, proprietà, beni mobili e immobili, manovalanza, potere propriamente inteso e detto, è stato il compito dell’analisi marxiana che ha svelato le leggi dello sviluppo umano in quanto sviluppo materiale, oltre che spirituale ed ideale.

Cercare invece di avvicinarsi ad una verità sul perché l’esistente esista e sul perché sia regolato da meccanicismi che non sappiamo spiegare se non limitandoci all’oggettività scientifica, è stato e rimane il compito peregrino di quella filosofia che Marx considerava inutile, perché condannata all’irrisolvibilità dei problemi che continuava a porsi.

L’essenza fisica dell’uomo è, quindi, l’oggetto dell’indagine sul senso dell’esistenza dal punto di vista del marxismo.

L’essenza del tutto è invece il contraltare metafisico di una gnoseologia che perviene ad un rapporto con l’ontologia che, da un lato è fortemente rimarcato in più scuole di pensiero che si sono succedute nel corso della storia europea e mondiale; mentre dall’altro lato somiglia ad una ripetizione delle storiche contrapposizioni tra l’essere e lo spiegabile, tra l’interpretabile e l’inconoscibile.

Schopenhauer prova a dare la sua chiave di lettura mediante un volontarismo della materialità delle cose che fa il paio (pur nella diversità evidente e, del resto, non negata) con la dimostrazione dei rapporti di causa ed effetto scientificamente provati.

La legge fisica e la legge della volontà non combaciano, ma vanno nella medesima direzione: tentare di spiegare come mai tutto segua determinati sviluppi che non si contraddicono vicendevolmente ma che rientrano in un ordine naturale dell’esistente che, se ci si proietta per un attimo al di fuori della nostra Terra nell’enorme vastità dell’Universo appena visibile nella sua immensità, è, secondo le nostre categorie umane, caos e disordine, violenza e scontro, mistero e impenetrabilità.

Quello che accade nell’Universo è comprensibile soltanto attraverso lo studio scientifico che, attraverso il dubbio e l’indagine conoscitiva che genera di continuo, spinge a nuova conoscenza e, pertanto, a nuovi necessari, utilissimi dubbi.

Dai buchi neri alla percentuale della materia oscura che rappresenta la maggioranza di quell’essere che, proprio in questo caso, Gorgia potrebbe ribadirci essere letteralmente, oggettivamente non conoscibile, noi scopriamo che la nostra autocoscienza non risolve il problema dell’esistenza. Non ci fa comprende chi siamo se non nella finitudine categoriale dei nostri confini mentali ed esclusivamente entro i confini del nostro piccolo mondo.

Schopenhauer sostiene che la volontà non è mai qualcosa di buono, non è mai vera libertà, ma è prigione, costrizione, diretta o indiretta che la si possa percepire (quindi conoscere molto meglio rispetto all’analisi ideale, tanto per riconsiderare ancora le categorie di Hume): la volontà è in noi un profondo istinto, qualcosa che ci porta ad agire prescindendo dal nostro stesso volere, perché noi sia “agiti” dalla volontà e non ne siamo i padroni, diversamente da quello che riteniamo ogni giorno.

Noi “possiamo” solo nella misura in cui ci rendiamo edotti del fatto che il volere è soltanto parzialmente una nostra prerogativa autonoma.

La volontà è il mondo, l’universalità delle cose, è quel “senza scopo” alcuno, quell’eternità e quell’unicità in cui tutte le leggi che regolano l’esistente si esplicano dando del filo da torcere alla nostra capacità di studiare fenomeni che non dipendono, apparentemente, da niente a da nessuno se non da sé stessi.

E, a pensarci bene, quindi astraendo razionalmente e operando una scissione rispetto allo humiano schema conoscitivo della percezione come elemento di chiarezza quasi universale, noi stessi ora, qui, che scriviamo, leggiamo, ci poniamo domande e ragioniamo sull’esistente e sull’esistenza, lo facciamo seguendo delle precise leggi di comportamento che obbediscono o che seguono un processo che non stiamo dettando noi.

Noi lo stiamo “interpretando” e seguiamo ciò che l’istinto ci dice senza dircelo.

Ciò che sappiamo è, quindi, frutto di una conoscenza in parte aprioristica ed in parte dettata empiricamente dall’esperienza. Le categorie che Schopenhauer introduce per definire il rapporto tra oggetto e soggetto, tra ciò che viene conosciuto e appreso e chi lo conosce e lo apprende sono, a differenza delle dodici kantiane, soltanto tre: spazio, tempo e casualità. Il caso ci avvicina all’inconoscibile, perché non segue degli schemi precongegnati e precostituiti.

Il caso è una teorizzazione fin troppo comoda che ci regaliamo ogni tanto quando non vogliamo addentrarci nelle problematiche che ci si pongono innanzi e che necessiterebbero di approfondimenti e di studi. Facile utilizzare la casualità degli eventi così come è fin troppo facile spiegare il tutto, l’essere e l’esistere con l'”ipotesi Dio“.

Schopenhauer quindi chiama “volontà” ogni istintualità, ogni manifestazione della natura e degli esseri viventi che, in questo modo, si rappresentano nel mondo che, a sua volta, è una rappresentazione che noi avvertiamo dell’esistente anche grazie all’apriorismo delle categorie temporali, spaziali e di casualità.

Il mondo, di per sé, è solo soggettivamente conoscibile come rappresentazione singolare che ognuno di noi dà ai fenomeni che avvengono e che sono, alla fine, inspiegabili. Questo non significa che venga negata una oggettività delle cose.

Significa soltanto che arrivare ad una definizione ultima della verità sulle cose, sulle persone, su tutto ciò che è esiste è praticamente impossibile, perché non è riducibile ad unicità una molteplicità di percezioni così vasta che, pure tentando di avvicinarsi alla verità tanto di ciò che noi riteniamo ci sia e ci comprenda, quanto di quello che non vediamo o ci è tutt’ora ignoto, non riesce a risolversi in sé stessa, quindi ad eliminare la dicotomia tra percezione e idealizzazione.

La volontà è intrinseca nella materialità e nella sensibilità di qualunque cosa o essere vivente e senziente: il bambino che nasce piange perché quello è il suo “sviluppo” volontario, naturale; così, istintivamente, piange quando ha fame o quando sente dolore.

Perché invece di piangere, in questi casi, non ride? Perché la mancanza di cibo e il dolore fisico si somigliano? Perché sono entrambi un nocumento per il piccolo essere umano? Ogni comportamento della materia e della nostra esistenza risponde ad una volontà che ci è innata, a qualcosa di biologicamente spiegabile, ma di filosoficamente imprendibile.

La risposta comportamentale del bambino alla mancanza di cibo è una risposta ad un bisogno che, se non soddisfatto, induce il neonato a strillare e a dimenarsi, piuttosto che ad attendere serenamente che qualcosa o qualcuno lo nutra. Noi rispondiamo: è naturale, è così. Ed è vero. Schopenahuer risponde: è la volontà che si manifesta. La scienza ci ha abituato a conoscere sempre meglio le cause dei comportamenti, gli effetti che ne derivano e, quindi, ad operare delle scelte.

Le scelte sono i bivi del dubbio e, quindi, in fondo, anche momenti in cui la conoscenza ulteriore si forma continuamente, senza che vi sia una sosta in questo processo di autoelaborazione, di analisi dell’esperienza e di evitabilità di tutto quello che l’istinto di autoconservazione ci induce, appunto, a scansare per proteggerci e per non recarci danno o morire.

Ma, per quanto si possa indagare in merito, la “volontà” schopenhaueriana è definita da più moderne interpretazioni deterministiche che ne fanno una filosofia del pessimismo, ritenendola una interpretazione dell’esistente che si allontana dallo studio scientifico divenendo idealismo nella resa all’irrazionalismo dell’Universo e della vita che include.

Ogni nostro atto è la rappresentazione del “nostro” mondo che, quindi, esiste soltanto nella misura in cui ci è proprio ma, di per sé, non ha una sua finalità oggettiva, non ha un suo scopo.

Siamo noi, quindi, prigionieri della volontà che “ci agisce“, a subirne tutte le conseguenze meccanicistiche e ad obbedire ad una comportamentalità che è illusoriamente libera anche, e soprattutto, nell’amore. Un inganno, secondo il pessimismo di Schopenahuer, che ci induce alla riproduzione ma che non ci libera dalla volontà e quindi non ci rende veramente felici.

Non siamo liberi se non nella misura in cui il rapporto inconoscibile tra ciò che è e ciò che diviene (in noi e fuori di noi) ci permette di esserlo o, sarebbe meglio dire, di essere, di esistere attraverso comportamenti che sono in larga parte destinati alla preservazione e, quindi, alla lotta per questa necessità di esserci e di non venire meno, di non morire.

La fuga dall’annientamento, e quindi da tutto ciò che ci avvicina ad esso, compreso il dolore fisico (e non di meno quello spirituale e/o psicologico), sembra essere uno dei motivi regolatori della “volontà” universale e, nello specifico, di quella che uniforma i comportamenti degli esseri senzienti.

Ma siamo sempre a metà tra speculazione filosofica e osservazione empirico-scientifica. Siamo quindi a metà del guado e non abbiamo risolto praticamente nulla.

Una visione così cupa delle regole che determinano lo sviluppo dell’esistente è figlia del tempo in cui visse il filosofo tedesco, ma è, senza ombra di dubbio, anche il frutto delle influenze filosofiche e culturali che assorbì quando era giovane: verità-oggettività e soggettività-invisibilità del mondo dal platonismo, fenomenologia kantiana, velo di Maya dai “Veda“.

La si può valutare, con qualche innegabile pregiudizio, un po’ troppo schematica per essere davvero una teoria dell’inconoscibilità; una specie di esercizio retorico che, alla fine, non ci fa approdare a nulla. Ma la domanda rimane: perché, forse dobbiamo approdare a qualcosa? Forse c’è un senso da dare a tutto questo, compreso Schopenhauer?

MARCO SFERINI

14 gennaio 2024

foto: elaborazione propria, particolare de “L’isola dei morti” di Arnold Böcklin, Arthur Schopenhauer e David Hume

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