Il “campionato elettorale” truccato del 20 settembre

Quando si vuole rimestare nel caos, il modo per generare altro caos lo si trova sempre: è un po’ questa la sintesi del voto della maggioranza di governo sulla...

Quando si vuole rimestare nel caos, il modo per generare altro caos lo si trova sempre: è un po’ questa la sintesi del voto della maggioranza di governo sulla “giornata elettorale” (altrimenti conosciuta come “election day“) che unirà l’espressione della popolazione sul referendum concernente il taglio dei parlamentari e quella sul rinnovo dei consigli regionali.

Tutto legittimo e, proprio per questo, tutto ingarbugliato una ennesima volta, grazie allo scudo della correttezza formale che però esalta inevitabilmente la scorrettezza sostanziale di un esecutivo, e delle forze che lo compongono, nell’accorpare due consultazioni che non hanno intanto nulla a che vedere l’una con l’altra; che, inoltre, finiranno per influenzarsi a vicenda nel corso della campagna elettorale multipla, condizionando le ragioni del NO (o del SI’, ammesso che se ne trovino) al taglio dei parlamentari con la sostenibilità di futuri scenari di governo nelle singole regioni.

Il tutto cercando di replicare lo schema dell’attuale Conte bis, quindi la cosiddetta “alleanza giallo-rossa” dove il peso grillino in questo frangente si è particolarmente avvertito: se, infatti, è completamente in linea con lo schema populista pentastellato tanto il merito del referendum che pretende di tagliare il numero dei parlamentari (depotenziando le funzioni proprie del Parlamento, disequilibrandone il ruolo rispetto agli altri poteri dello Stato) nel nome del “risparmio” sui “costi della politica“, quanto il metodo, il pasticciaccio della giornata elettorale unica, appare quanto meno bislacco il comportamento della cosiddetta sinistra della coalizione: il PD zingarettiano e ciò che rimane di Liberi e Uguali.

Quanto meno da LeU ci si sarebbe attesi una netta contrarietà ad un provvedimento di unificazione delle due tornate elettorali: se non altro per il rispetto della buona norma costituzionale che prevede la massima chiarezza nello stendere innanzi al popolo una domanda molto importante di presunta “riforma” dell’architrave della Repubblica.

Tenendo anche in considerazione un altro fatto, certamente non trascurabile, ammesso che ancora si abbia veramente a cuore il contesto parlamentare su cui si fonda questo Stato democraticamente malconcio: il governo non ha consultato i comitati referendari per avere un parere in merito. Non lo ha fatto. Non era formalmente tenuto a farlo, ma buona prassi di gestione della cosa pubblica vorrebbe che, quanto meno per galateo istituzionale, si tenesse a mente che l’ascolto, la ricezione delle opinioni è il sale di quella democrazia liberale di cui tutti si vantano e che poi a difendere dallo stesso liberalismo sono proprio i non liberali: comunisti tra i primi. Sempre.

Il problema della garanzia costituzionale nei confronti dell’elettorato, che in sostanza sia in grado di discernere compiutamente quesito referendario e chiamata al voto per l’elezione dei consigli regionali, è un tema degno se non altro del ricorso fatto dal professor Besostri, celebre per aver già vinto più volta in punta di diritto lotte di avversione a questi trucchetti istituzionali per gestire meglio il consenso e indirizzarlo verso il SI’ acritico, questa volta dei Cinquestelle, altre volte di colore democratico-renziano, altre volte ancora di colore azzurro-berlusconiano.

Indubbiamente, il grande alibi per evitare due scenari elettorali distinti è stato il Covid-19 che fa quindi ora come vittima proprio la centralità del Parlamento nel seno repubblicano e ci porta a sostenere una campagna elettorale praticamente appena dopo Ferragosto, quando ancora le menti di tanta parte della popolazione sono letteralmente “in vacanza“. Molto di più di quanto non lo siano solitamente nel resto dell’anno e nei confronti, soprattutto, di una, politica che rompe la noia della consuetudine di numeri, percentuali e diciture economiche per la maggiore incomprensibili ai più.

Tempi e modi di svolgimento di due campagne elettorali non relegabili alla necessità imposte dai tempi. Se è vero che alcune giunte regionali sono andate oltre le scadenze del loro mandato, è allora altrettanto corrispondente al vero la tesi per cui se l’alibi del Covid-19 viene invocato per il giorno elettorale unico, tanto più non l’alibi ma la cruda realtà dell’esplosione della pandemia ha impedito di tenere le elezioni in questo giugno affollato più di Stati generali e rapporti con l’Unione Europea che di politiche meramente interne e interregionali.

La lotta del NO al taglio dei parlamentari non sarà affatto semplice: lo scontro con i tanti pregiudizi antidemocratici, fatti vivere alla popolazione come pieno rispetto della democrazia, dato proprio dal taglio del massimo organo che l’ha sempre protetta e tutelata in oltre 70 anni di vita repubblicana, si somma alla complessità di qualunque tema investa questioni concernenti l’ordinamento dello Stato.

Occorrerà semplificare al massimo i messaggi, dicendo chiaramente che la vittoria del SI’ (sostenuto da quasi tutta la maggioranza di governo e da larghissima parte delle opposizioni) i territori, le periferie di questo nostro Paese saranno sempre meno rappresentate in Parlamento, proprio a causa del taglio della rappresentanza.

La compressione del numero di deputati e senatori impedirà alle minoranze di essere adeguatamente espresse, secondo la volontà popolare nel voto politico, proprio nell’arco delle Camere, visto che non esiste una legge elettorale proporzionale pura e che ogni trucco maggioritario finisce col viziare inevitabilmente l’esito delle urne.

Sono solo alcuni dei concetti fondamentali che, legati al fondamentale rispetto per la centralità del Parlamento nel contesto istituzionale della Repubblica, dovrebbero prevalere sulla facile demagogia pentastellata che mira a parlare alla pancia dei cittadini, all’istinto piuttosto che alla ragione, affermando che tagliando il numero dei deputati e dei senatori il costo della politica è inferiore e, quindi, saremmo davanti ad una grande vittoria di princìpi, ad una esaltazione della democrazia basata su una presunta riduzione di privilegi della cosiddetta “casta“.

La democrazia ha un costo che le dittature non hanno. Ma se, comunque, si vuole tagliare parte di quel costo, basta adeguare gli stipendi di deputati e senatori ai livelli retributivi di un metalmeccanico, pari ad un reddito annuo medio di 22.000 euro. Circa 1.250 euro al mese. Troppo pochi per spostarsi, andare “in missione” per conto del Parlamento sui territori? Indubbiamente. Si può alzare l’asticella, inserendo anche la gratuità degli spostamenti per tutti i deputati e senatori.

Ma l’ultima cosa da fare è pensare di tagliare i costi della politica tagliando i posti della politica. Non si tratta di quantità, ma di qualità istituzionale. Amputare il Parlamento senza riequilibrare la rappresentanza territoriale e senza una legge elettorale totalmente proporzionale, è fare uno sfregio alla democrazia repubblicana. Sapendo di farlo.

Sembra abbastanza chiaro perché si sia voluto l’accorpamento tra le due tornate elettorali: per evitare che si possano spiegare compiutamente le già di per sé difficili ragioni (ma fondamentali e necessarie) del mantenimento degli attuali numeri di Camera e Senato, facendo leva su più ampie argomentazioni che trascendono il semplicistico discorso sui costi onerosi della politica. In realtà, è solo un grimaldello per sollevare il pesante coperchio democratico che impedisce ai governi di agire con più facilità nell’emanazione di provvedimenti che, altrimenti, dovrebbero sempre avere l’avvallo di un organismo giustamente complesso, poiché lì risiede la sovranità popolare, la tutela massima della stabilità nazionale in quanto a rapporti civili, sociali, economici e politici.

Prima di tutto bisogna battere la retorica, la demagogia e il populistico riferimento alla differenza sociale tra politico e cittadino non-politico (ma non a-politico). Poi si dovrà entrare nel merito delle ragioni del NO. Il fatto che sia una battaglia durissima non vuol dire che sia impossibile da combattere: arrendersi sotto la canicola estiva, davanti alla grande unità nazionale contro la Costituzione che viene messa in campo con il SI’ alla controriforma del governo, è certamente già un cedimento alle pressioni antidemocratiche che rischiano di venire fuori compiutamente dopo il voto del 20 settembre.

A sostegno del NO vi saranno forze politiche, sindacali, sociali, singole personalità della cultura, dell’arte, del cinema. Non vi sarà lo spettro parlamentare che si è trasversalmente unito nel 2016 contro il referendum Boschi-Renzi che pretendeva di abolire il Senato della Repubblica.

Saperlo, vuol dire essere consapevoli delle vere ragioni della partita in campo: vogliono vincerla per avere il pallone e per decidere loro, e loro soltanto, come si giocheranno gli altri incontri.

Anche questa volta serve uno scatto di orgoglio democratico, sociale: da parte soprattutto dei lavoratori, dei disoccupati, dei precari, degli studenti, dei pensionati. Di tutte e tutti coloro a cui questa contro-riforma darebbe solo altri grattacapi, riducendo gli spazi di agibilità democratica, di partecipazione. Consentendo ai padroni del vapore economico di essere più tranquilli nel manovrare il loro comitato di affari permanente: il governo liberista giallo-rosso oggi, blu-nero sovranista domani.

MARCO SFERINI

20 giugno 2020

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