Tra cronaca e propaganda: il destino del “senso comune” sulla guerra

C’è un tentativo, nemmeno poi tanto affidato alla buona fede dell’inconsapevolezza, di un inconscio comunicativo nella deontologia giornalistica quotidiana in tempo di guerra, di separare il contesto strutturale in...

C’è un tentativo, nemmeno poi tanto affidato alla buona fede dell’inconsapevolezza, di un inconscio comunicativo nella deontologia giornalistica quotidiana in tempo di guerra, di separare il contesto strutturale in cui i conflitti nascono dalle sovrastrutture che li alimentano per rendere più solide le basi del “potere” politico.

Capita di scorgerlo tra le righe dei quotidiani, nelle frasi dei commentatori in studi televisivi e persino in quelle dei cronisti che si trovano sul campo, là dove la guerra imperversa, dove la morte la si respira camminando tra le macerie e pare quasi di sentirne il fetore dall’atmosfera che viene creata in televisione quando si va a sbirciare tra i cadaveri, avvertendo prima – per buonissima creanza – che le immagini potrebbero essere forti e che bambini e deboli di cuore possono anche astenersi dal vederle.

Il racconto della guerra sembra cominciare e finire lì, dove la guerra stessa è riscontrabile con assoluta oggettività, dove l’incontestabile domina la scena, dove non c’è possibilità di errore alcuno: le rovine dei centri commerciali, dei teatri e delle scuole colpite dai missili ipersonici, dalle bombe a grappolo e dalle cannonate non possono avere filtri di alcun tipo. Tranne quelli che le suggestioni verbali istillano quando forzano sull’aumento esponenziale dell’empatia con le vittime del conflitto.

Questi testimoni dell’orrore sono tuttavia preziosissimi. Lo sono, senza troppi giri di parole, perché altrimenti della guerra sapremmo ancora meno e non potremmo nemmeno biasimare la parzialità di un racconto che, per sua natura, deve essere contingente, fattuale e non può tutte le volte riferirsi al contesto “storico-attualistico” in cui, lo si voglia o no, fa comunque riferimento necessario e dove si trova la spiegazione logica e cronologica di ciò che oggi abbiamo intorno e sotto gli occhi.

Nel momento in cui un inviato di guerra ci racconta, giorno per giorno, cosa avviene sui tre e più fronti aperti dalle armate di Putin in Ucraina, la cronaca sconfigge la parzialità del sentito dire, delle voci che si rincorrono. Si sforza di essere quanto più aderente alla realtà possibile, pur non garantendo di essere immune da sviste, errori, false notizie che sono armi di depistaggio reciproco tra le parti in causa.

Nel momento in cui, però, ci troviamo davanti soltanto alla cronaca, tocca a noi interpretarla, contestualizzandola e consegnandola a quell’elaborazione critica che solo la ricerca, lo studio e la memoria possono valorizzare, facendone un diario degli accadimenti. Non c’è bisogno di aprire molti libri sulla storia del paesi slavi, su quella della Russia per capire alcune delle ragioni ideologiche, politiche e persino socio-economiche della guerra in corso in Ucraina.

Basterebbe rispolverare, insieme ad un buon atlante storico, le pagine di qualche volume delle scuole superiori, meglio ancora se di qualche corso universitario, per rendersi conto che c’è molto Novecento nella tragedia iniziata (si fa per dire, rispettando ormai una convenzione acquisita perché proclamata da tutti i mezzi di comunicazione) il 24 febbraio 2022.

Questo vale per le giovanissime generazioni allo studio del cammino (dis)umano della nostra specie; ma vale anche per chi ha una apprezzabilissima curiosità e decide di non accettare spiegazioni che stagnano nel lasso temporale di pochi mesi o anni, ma pretende, in un mondo globalizzato e dallo sviluppo inegualissimo molto veloce, di superare i manicheismi e la dittatura degli opposti, l’aut aut semplificazionista tra occidentalisti da un lato e filorussi e putiniani dall’altro.

La simbiosi tra la cronaca bellica, lasciata sola e a disposizione della schiera degli opinionisti catodici o dei compulsatori di social network, e l’inserimento della stessa nella costruzione della morale necessaria alla formazione dell’opinione pubblica, porta inevitabilmente a quanto si faceva cenno all’inizio: l’utilizzo delle ragioni sovrastrutturali, quindi essenzialmente riferibili al potere politico, all’interesse di Stato, come le uniche motivazioni di scoppio dei conflitti armati tra le nazioni, tra i popoli.

In questo modo, mentre le guerre continuano ad essere uno dei prodotti principali del sistema capitalistico e delle sue traduzioni imperialiste nella politica estera dei governi, nel racconto quotidiano appaiono come effetto di una causa molto semplice e quasi banale: la sete di potere di questo o quel presidente, di un oligarchico autocrate oppure di un tiranno conclamatamente tale che isola sé stesso e la sua (nel senso più proprietario possibile dell’aggettivo) gente.

Riuscire a ricomporre la dualità causale tra struttura economica e sovrastruttura politica, nel cercare di mostrare le motivazioni che conducono ad una guerra, pare una impresa davvero titanica se ci si confronta con la miriade di opinioni che sorvolano volutamente sul fatto che questo tipo di economia, questo tipo di società fondata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione (e su tante altre forme e tipi di proprietà, visto che praticamente tutto è merce e tutto ha un doppio valore, di uso e di scambio) ha nel suo codice genetico la conflittualità permanente, interrotta soltanto per un po’ di tempo da un regime concorrenziale in cui si stabilisce un equilibrio comunque disarmonico.

Per far capire tutto questo con parole semplici, in fondo basterebbe dire che la guerra è figlia del potere, da sempre, ma che il potere economico l’ha resa una costante nella vita non solo di noi esseri umani, ma dell’intero pianeta: interessi economici, finanziari e anche voglia di egemonia politica e di dominio si compenetrano oggi meglio che in qualunque tempo, raggiungendo ogni parte della terra, ogni luogo nei mari e dominando i cieli ad ogni latitudine e longitudine.

Il progresso scientifico non ci eviterà i conflitti armati se non cambieremo anzitutto i rapporti di produzione, i rapporti sociali e tra le classi e smetteremo, ad esempio, di sfruttare la natura, gli animali e noi stessi per accumulare ingenti profitti nelle tasche di un sempre minore numero di individui.

La guerra in Ucraina, come le tante altre guerre sparse negli altri continenti, ha ovviamente delle motivazioni storiche, ma è prima di tutto nella strettissima attualità in cui ci troviamo che deve essere spiegata e analizzata. Altrimenti, se utilizzeremo solo le lenti del passato, anche se recente, rischieremo di deformare il punto di osservazione e di travisare i veri motivi per cui oggi Vladimir Putin aggredisce un potere politico che, come quello russo, è sorretto da magnati dell’economia, della finanza, persino della comunicazione.

Questo non è un discorso anarcoide, anche se vorrebbe poterlo veramente essere. E’ andare a fondo delle irragionevoli spinte che portano al conflitto armato, all’omicidio di massa, all’orrorismo solido che si può vedere nei corpi dilaniati, nelle distruzioni di intere città e nelle tante immagini che ci trasmettono la devastazione della guerra.

Per andare oltre le guerre bisogna andare oltre questa società. Non c’è altra soluzione: né morale, né fideistica, né persino squisitamente solo politica. Lo possono fare i popoli se acquistano quella coscienza che gli deve derivare dalla condizione in cui si trovano a sopravvivere da sfruttati, da finti protagonisti di una società solo apparentemente moderna, civile e democratica.

Lo possono fare e lo devono fare i popoli e per questo le lotte sociali, per quanto marginali possano sembrare in questo momento di allarme bellico, sono importantissime. Fondamentali. Le lavoratrici e i lavoratori sono ancora la chiave di volta per aprirsi ad una nuova pagina di storia dell’umanità. Almeno speriamo…

MARCO SFERINI

22 marzo 2022

foto: screenshot

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