La Spianata delle Moschee è semi deserta da mesi. Per tanti motivi: per la chiusura della Cisgiordania e la sospensione di centinaia di migliaia di permessi di ingresso per i palestinesi dei Territori occupati (per lo più di lavoro, ma non solo) e per le restrizioni imposte ufficiosamente dalla polizia israeliana nel terzo luogo sacro dell’islam.

«Dopo il 7 ottobre entrare ad al-Aqsa è un’utopia per la maggior parte dei fedeli – ci raccontavano pochi giorni fa Ahmad e Lina, palestinesi residenti a Gerusalemme – Non solo per chi arriva dalla Cisgiordania, ma per tutti. Permettono l’ingresso solo agli anziani, sopra i 65 anni. La Spianata è come il resto della città vecchia: un luogo fantasma».

Di venerdì entrano in pochissimi, 15mila fedeli quando va bene sui 50mila che affollano di solito l’assolato cortile che pare un quadro di De Chirico. Il resto della settimana cambia poco. In questi mesi non mancano arresti e pestaggi di chi prova a mettersi in fila alle porte dedicate ai fedeli musulmani. E ora all’orizzonte c’è il Ramadan, inizio previsto 10 marzo (a luna volendo): «Se chiudono Al Aqsa, le tensioni accumulate, militari, economiche, esploderanno», prevedono Ahmad e Lina. Loro non entrano da mesi, troppo giovani.

«Gerusalemme è una caserma, abbiamo tutti paura a parlare. In passato è già accaduto che al Aqsa diventi la scintilla in un clima di umiliazioni quotidiane». È successo con la Seconda Intifada, più di recente nel 2021 durante il movimento a difesa di Sheikh Jarrah, il quartiere di Gerusalemme est a rischio sgombero. Le previsioni non sono campate in aria: Tel Aviv sta già pensando ai modi per rendere le restrizioni sulla Spianata ufficiali.

Inizia tutto – di nuovo – con il ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, esponente del movimento dei coloni e dell’ultradestra razzista, fautore del riarmo a pioggia dei suoi sostenitori e delle loro ronde nelle città israeliane. Preme sul primo ministro Benyamin Netanyahu perché introduca nuovi limiti all’ingresso ad al Aqsa nel mese sacro di Ramadan, in contrasto con i consigli delle agenzie di intelligence che tutto vogliono meno che un’esplosione a Gerusalemme.

Netanyahu, noto per non ascoltare nessuno, non si è fatto pregare e ha fatto sapere di aver «compiuto una decisione bilanciata tra libertà di religione e sicurezza». Nessun dettaglio ufficiale, è la stampa israeliana a darne: il premier avrebbe ordinato all’intelligence di presentargli una serie di opzioni in merito a quote e limiti di età. Coinvolti tutti, non solo i palestinesi dei Territori (compresa la stessa Gerusalemme, dove vivono circa 400mila palestinesi, apolidi) ma anche i palestinesi con cittadinanza israeliana.

Quello che vuole Ben Gvir si sa: accesso permesso solo agli ultra 70enni. Lo Shin Bet, i servizi interni, vuole abbassare l’asticella: uomini over 60 e donne over 50, compresi i palestinesi dei Territori doverosamente «scannerizzati». Potrebbe invece non arrivare con il Ramadan l’avanzata su Rafah, promessa (minacciata) dal gabinetto di guerra incurante degli appelli internazionali.

Emerge dalla valutazione dell’esercito israeliano di ieri: serviranno settimane per un’offensiva via terra sulla città più a sud della Striscia. Fosse vero, vuol dire tante cose: che per ora Rafah e i suoi 1,5 milioni di sfollati possono tirare un mezzo sospiro di sollievo (i raid aerei continueranno), ma anche che Tel Aviv ha in mente di andare avanti ancora per mesi.

Dopotutto Netanyahu lo ha sempre detto: la vittoria richiede tempo. Un obiettivo costruito sulla vita degli ostaggi israeliani, ancora 136 quelli a Gaza, di cui si stimano 32 morti, tra cui – secondo Hamas – anche la famiglia Bibas, la madre Shiri e i piccoli Ariel di 4 anni e Kfir di pochi mesi, di cui ieri l’esercito ha pubblicato video risalenti alle prime settimane di rapimento. E costruito sul terrificante bilancio di 29mila palestinesi uccisi in quattro mesi e mezzo di offensiva su Gaza.

Ieri le bombe sono cadute vicino all’ospedale Al-Amal di Khan Younis, «gemello» del Nasser, non più funzionante a causa dell’invasione israeliana nonostante la presenza di 161 tra sfollati e staff medico: non c’è più cibo, né elettricità e ossigeno, già 9 i pazienti uccisi dalle mancate cure, mentre l’Oms denuncia i divieti israeliani a far entrare gli aiuti. In tale contesto il negoziato prosegue a singhiozzo.

Ieri il Qatar, principale mediatore, ha risposto a Netanyahu che accusava Doha di aver proposto un cessate il fuoco che non prevede rilascio degli ostaggi: il ministero degli esteri in una nota ha ribadito l’impegno in merito, definendo le parole del premier «interessi politici personali». Che è la sopravvivenza politica.

Per Bibi passa il rifiuto anche solo a immaginare uno stato di Palestina: ieri il governo ha votato una «dichiarazione di posizione» in cui si impegna a rigettare qualsiasi statualità palestinese. Andrà ora alla Knesset: «Sono certo che sarà sostenuta da una maggioranza schiacciante», ha scritto Netanyahu.

CHIARA CRUCIATI

da il manifesto.it

foto: screenshot tv