Pandemia: dal lavoro nero ad un progetto di giustizia sociale

Questa è l’economia in cui viviamo, il mondo del lavoro in cui viviamo: un’economia che contempla 3,3 milioni di occupati in nero, senza alcuna garanzia, senza alcun diritto e...

Questa è l’economia in cui viviamo, il mondo del lavoro in cui viviamo: un’economia che contempla 3,3 milioni di occupati in nero, senza alcuna garanzia, senza alcun diritto e che, proprio per questo, consegnano a chi li sfrutta beceramente e, indirettamente anche al Paese, ben 78,7 miliardi di euro all’anno. Il 38% di questi moderni schiavi lavora al Sud e conosce salari da fame che si sommano ad altri piccoli salari che non è facile capire se siano il primo o il secondo lavoro.

Più che di salari si dovrebbe parlare di elemosine gettate nel cappello messo a terra dal bracciante, dallo studente che fa il rider per una pizzeria piuttosto che per una grande catena di distribuzione alimentare, dal pensionato che è costretto a reinventarsi un lavoro, improvvisando, come un artista che salito sul palcoscenico dimentica le battute e deve tenere alta l’attenzione del pubblico a tutti i costi.

Questi proletari del 2020 sono dei saltimbanchi dell’esistenza, funamboli straordinari come Philippe Petit, costretti a sfidare anarchicamente il potere in tutte le sue forme, sviando regole che gli garantirebbero magari qualche tutela rispetto al vuoto che gli si espande intorno e che non lascia loro se non la misera paga che ricevono sotto ricatti che non sono nemmeno denunciabili ai sindacati, agli ispettorati del lavoro.

Ma intanto, grazie a queste donne e a questi uomini che fanno una vita tremenda, che sopravvivono senza riuscire a godersi un istante di felicità, che sacrificano senza volerlo il loro tempo per l’arricchimento senza scrupoli di padroncini, caporali, padroni medio-grandi che la fanno in barba al fisco e allo Stato, questi proletari del 2020 arricchiscono l’intera nazione mentre rischiano già da domani di non lavorare più.

La crisi pandemica del Covid-19 ha costretto anche un governo liberal-liberista come il Conte bis a creare una barriera minima di protezione per evitare che, oltre al diffuso disagio nei confronti dell’insufficienza sanitaria del primo semestre di quest’anno si creasse un disagio sociale molto più esteso, capace di divenire una sottrazione senza limiti di consenso all’esecutivo; ciò avrebbe innescato un vortice di eventi traumatici in una società largamente lesa nelle sue fasce più deboli e avrebbe rafforzato la demagogia, il pressapochismo populista di formazioni sovraniste ancora peggio disposte verso i lavoratori e i precari di quanto non lo siano i sostenitori della “libertà di impresa” che siedono a Palazzo Chigi.

La proroga della Cassa integrazione e il blocco dei licenziamenti ha permesso, seppure parzialmente, di evitare questa implosione sociale nel Paese e ha limitato i danni dell’emergenza sanitaria associata a quelli fatti normalmente (visto che è nella natura del liberismo) dal capitalismo del nuovo millennio.

La domanda è dunque questa, ora che si avvicina lo scadere dei due provvedimenti: che cosa accadrà quando suonerà l’ora X, quando Cig e blocco verranno meno? La previsione è abbastanza semplice, nella sua crudezza, da fare perché i numeri sono spietati, parlano chiaro: entro la fine di questo anomalo 2020 sono 3,6 milioni i lavoratori che rischiano di perdere il lavoro e che, pertanto, andranno ad ingrossare le fila di tutto quel popolo di proletari che lavora in nero già oggi.

La lotta per il posto di lavoro privo di qualunque tutela, diritto e garanzia si rafforzerà per la disperazione sociale che prenderà il sopravvento nell’ambito di una instabilità economica i cui indici di crescita non sono certamente positivi se proiettati nel 2021.

Così lo scontro di classe sarà dentro la classe stessa degli sfruttati: probabilmente assisteremo ad un accrescimento della povertà in termini assoluti e con percentuali variabili a seconda di zone del Paese davvero molto differenti fra loro. Mentre al Sud l’impatto sarà enorme, in zone del Nord come il Triveneto si risentirà meno del fenomeno di ingrossamento della filiera del nero.

Già oggi, se si osservano gli studi de “Il Sole 24 Ore” e quelli fatti dalla Confederazione Italiana degli Artigiani, l’ufficio di collocamento del lavoro irregolare vede un Meridione afflitto da una piaga che si distribuisce beffardamente in modo eguale sul territorio delle regioni tanto continentali quanti insulari. Di 3,3 milioni di occupati in nero, ben 1.235.000 sono ripartiti per il 21% in Calabria, per il 19,8% in Campania, per il 19,4% in Sicilia e così via in Puglia e Basilicata, Molise e Abruzzo. Diverse percentuali si hanno in Lazio dove il fenomeno del nero inizia a far percepire l’inversione di tendenza, mano a mano che si risale la penisola.

Ma, percentuali o dati assoluti alla mano, non si esce dalla morsa del ricatto pressochè unanime che l’avanzare delle disuguaglianze pone innanzi ad una azione di governo che dovrebbe mettere in campo una serie di misure atte non solo a contenere i disastri antisociali che si possono ampiamente prevedere ma semmai a rilanciare un piano di spostamento del carico fiscale e del costo della vita dai ceti sociali più deboli a quelli più benestanti.

Non si può risolvere la crisi economica devastante di questo Paese nel breve e medio termine con riforme di struttura – pure importanti – quali il reddito di cittadinanza: occorrono presto e subito tre interventi dirimenti che siano improntanti alla giustizia sociale: una”Tassa Covid” da imporre a tutto il mondo dell’impresa che ha ottenuto grandi profitti proprio dall’emergenza coronavirus che non sono, è evidente, stati redistribuiti in alcun modo, visto che stiamo parlando dell'”iniziativa privata” e non certo di un bene pubblico e comune; una patrimoniale da applicare al di sopra di redditi ingenti e che potrebbe, insieme ad altri provvedimenti di tutela della dignità dei lavoratori, dei precari e dei pensionati, essere alla base del finanziamento di una terza proposta: quella del salario sociale minimo per tutte e per tutti.

Senza un piano di riforme improntato alla difesa degli sfruttati di ogni longitudine e latitudine di questo nostro Paese e dell’Europa intera, la crisi del Covid-19, tutt’altro che alle nostre spalle, potrà essere affrontata senza che si riversi esclusivamente sulle vite di chi non ha la possibilità di aumentare i propri “dividendi” aziendali grazie alla produzione di gel, mascherine, camici per ospedali e macchinari sanitari.

Laddove la domanda è cresciuta esponenzialmente a causa della crisi, lì si deve intervenire per evitare speculazioni e per recupare un po’ di giustizia sociale mediante la tassazione dei capitali cumulati da profitti inaspettati.

Non è possibile sommare alle elemosine della precarietà e del lavoro nero altre sofferenze per tutti i poveracci di questo disgraziato anno che segna l’inizio di una nuova stagione imprenditoriale, economica e padronale e che, pertanto, deve anche poter assistere alla rinascita di una nuova stagione di lotta per i diritti sociali, per la giustizia di classe e per la stessa lotta di classe. La pandemia è una occasione preziosa in questo frangente: può risvegliare tante coscienze da troppo tempo addormentate dalle lusinghe dell’economia di mercato, dalla compulsione degli acquisti senza senzo, da un addomesticamento al consumo che può diventare, oggi più che mai, una variabile dipendente dalla nostra consapevolezza e non uno stile di vita.

MARCO SFERINI

27 settembre 2020

Foto di TimKvonEnd da Pixabay

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