Nel nome dell’animalità

Riferendoci a noi stessi nel vasto, globale, planetario contesto in cui viviamo ogni giorno, dal particolare all’universale, ci definiamo unitariamente come “umanità“. Per secoli, per millenni forse, abbiamo fatto...

Riferendoci a noi stessi nel vasto, globale, planetario contesto in cui viviamo ogni giorno, dal particolare all’universale, ci definiamo unitariamente come “umanità“.

Per secoli, per millenni forse, abbiamo fatto di questo concetto includente un sinonimo di altre importanti nozioni che possono essere attribuite all’interezza degli esseri umani e che, in quanto tali, portano con sé un ampio respiro e quindi grandi idee che si sono fatte largo nel corso della storia: la lotta per l’uguaglianza di tutte e tutti, contro ogni discriminazione di genere, di sesso, per nascita, per cultura, per il colore della pelle; ed anche altre lotte che si sono amplificate grazie all’intuizione di questo o quel riformatore del mondo (come direbbero Marx ed Engels) e che hanno messo sullo stesso piano diritti civili e diritti sociali.

Non è sempre stato facile far avanzare il progressismo spirituale ed intellettuale con quello di matrice più materialista. Non è sempre stata data, anche nel movimento comunista e libertario, uguale importanza a tutti i diritti, nonostante si fosse, già dalla metà dell’800, consapevoli che il lavoro mentale non fosse da meno rispetto a quello manuale e fisico.

A poco a poco, col trascorrere dei decenni e con l’intrecciarsi di tante lotte di liberazione umana laddove resistevano fenomeni retrivi, conservatori, stretti attorno ai dogmi della chiesa o alle presunzioni di fascismi mutati in regimi oligarchici e autocratici di diverso colore e, almeno in alcuni casi, sfacciatamente riferiti al socialismo o al comunismo delle origini, si sono sommate le rivendicazioni e si è capito che l’orizzonte ultimo per la costruzione di una nuova umanità, oltre il capitalismo, avrebbe dovuto includere tutti i diritti che mancavano e che, tutt’oggi, mancano.

Non è sufficiente che la classe lavoratrice abolisca la proprietà privata dei mezzi di produzione affinché da questo nasca una società completamente libera: non si è veramente nel pieno della propria coscienza, della propria volontà e non si può godere di una completezza di sé stessi, nel rispetto della comunità di cui si fa parte, interagendo con chiunque faccia parte della nostra esistenza, se non si capovolge esattamente tutto quello che oggi siamo costretti a subire e che facciamo subire a tanti altri esseri viventi.

Qui sorge una problematica che va ben oltre la rivoluzione proletaria anticamente intesa; si pone il tema della convivenza dell’essere umano con gli altri abitanti del pianeta Terra: e la si pone in relazione proprio ad un concetto di uguaglianza che, per sprigionare compiutamente il suo significato più bello e completo, deve riguardare tutti gli animali, umani e non umani.

Ed ecco il punto: noi siamo umani, ma siamo anche animali. Però, in virtù della nostra assoluta, innegabile specialità di cui godiamo rispetto al resto della materia inanimata o animata che sia presente nell’universo conosciuto, pretendiamo di essere un gradino più in alto, nella scala valoriale e in quella di godimento di diritti naturali.

Nella più ristretta cerchia della nostra animalità umana, per tanto tempo abbiamo discusso su chi avesse diritto a più diritti, su chi dovesse vantare dei privilegi e chi dovesse subirne il peso. Abbiamo, esattamente come fanno tante specie di animali non umani, lottato per definire l’importanza delle distinzioni fondandola essenzialmente sulla forza muscolare all’inizio dei tempi e poi, creando le comunità di individui, iniziando a delegare ad un capo la rappresentanza comune, la gestione del villaggio prima e della città-stato poi.

Ci siamo inventati la democrazia, il potere popolare, per definire meglio una forma di rappresentatività che includesse una delega data dal cittadino elettore al cittadino eligendo, fingendo così di aver scoperto un equilibrio quasi perfetto (indubbiamente perfettibile) e abbiamo lasciato crogiolare il tutto sulla brace a tratti silente, a tratti incandescente di un sistema economico privato, escludente, privatizzatore di ogni bene sociale, che ha trasformato tutto e tutti in merci da scambiare, da vendere, da acquisire per sfruttare sempre al meglio le potenzialità produttive e fare di tante effimere necessità dei bisogni contingenti e irrinunciabili.

La nostra intelligenza, la nostra coscienza più intima, proveniente dal “nocciolo” di quell'”io” nascosto in noi stessi, invisibile cambiamento ancestrale che ci definisce ogni giorno differentemente, nonostante noi si pensi di essere immutabili nel tempo e che, al pari, tutto quello che ci circonda si trasformi molto più lentamente di quanto crediamo, queste due vere  proprie specialità della parte più complicatamente e complessamente evolutasi della materia, noi le abbiamo usate per asservire il resto del pianeta, piuttosto che metterle al suo servizio.

Questa dissertazione, oggettivamente piegata ad una analisi politica e sociale della vita degli animali umani, si discosta un poco dall’impostazione che Francesco De Giorgio ha dato al suo bellissimo libro “Nel nome dell’animalità“. Per il resto è abbastanza fedele nel voler richiamare l’attenzione di voi tutte e tutti sul problema della ricerca dell’uguaglianza solo nel perimetro umano, fingendo di ignorare che anche gli altri esseri viventi senzienti hanno percezioni simili alle nostre, visto che possiedono i sensi che ci sono propri: vista, udito, olfatto, tatto, gusto.

Tutti gli animali non umani percepiscono gioia, dolore: differentemente da noi, dirà qualcuno. Indubbiamente. Ma la percezione è un dato di fatto, perché sono vivi e senzienti. Quindi sentono e non sono soggetti passivi che si adeguano soltanto agli indirizzi che detta loro la natura, ma possono cambiare il corso della loro vita facendo delle scelte, distinguendo il bene dal male, l’utile dal non utile, la situazione di tranquillità da quella di pericolo.

Noi umani riteniamo comunemente di poterci astrarre dal contesto animale e di essere in diritto di possedere qualunque animale non umano, utilizzarlo a nostro piacere per diminuire le nostre fatiche, per il nostro divertimento o per soddisfare i gusti del palato. Ci battiamo contro il razzismo nella specie umana e non vediamo lo specismo, che è una forma di razzismo che va oltre i confini del nostro corpo, che colpisce gli animali non umani ogni giorno negando così quella “animalità” di cui siamo espressione poco meritoria.

Nel continuare a pensarci e a definirci solo “umani” ci allontaniamo dal ripensare a noi stessi come ad esseri uguali in diritti a tutti gli altri viventi. La superiorità che ci attribuiamo grazie alla “naturalità” intrinseca dello specismo nella ultramillenaria storia dei sapiens, è e sarà sempre quella contraddizione non superabile con la “semplice” liberazione dell’umanità dal regime del profitto, delle merci e della proprietà privata.

Per questo i comunisti di questo nuovo millennio hanno bisogno di esprimere differentemente dal passato le loro analisi e non farle rimanere rinchiuse nell’ostinazione della sola emancipazione operaia o dei lavoratori generalmente intesi. Non ci sarà mai liberazione completa, per una società evoluta veramente, se tratteremo ancora, dopo il (si spera) futuro superamento del capitalismo, gli animali non umani come vite inferiori, esseri da sottomettere perché meno intelligenti (a detta nostra, ma sarebbe meglio dire: reciprocamente diversamente intelligenti), non individui ma carne da macello.

Stiamo ancora, dopo millenni, cercando di stabilire una eguaglianza universale per noi animali umani. Quindi il cammino sarà lungo e forse, anche in questo frangente, sarà la natura ad obbligarci a repentini cambiamenti, visto che sette, otto miliardi di animali umani sul pianeta che si comportano come predatori di tutto e tutti sono veramente troppi. Sono insostenibili.

Ma quanto sarebbe eticamente, culturalmente, coscienziosamente bello se premiassimo la nostra intelligenza con una volontà di cambiamento: iniziando a prendere in considerazione il fatto che non abbiamo alcun diritto sugli altri abitanti del pianeta. Perché se l’essere più scaltri vuol dire sempre e soltanto essere al di sopra dei deboli, allora che differenza c’è tra noi e le teorizzazioni naziste di Hitler e Goebbels su quel diritto naturale secondo cui i forti devono per forza trionfare sui deboli?

E’ questa la nostra umanità? E’ questo il punto ultimo di arrivo della nostra sapienza, della nostra capacità intuitiva e deduttiva? Se è questo, è ben misera cosa. Di libri come quello scritto da Francesco De Giorgio ne servirebbero molti, anche scritti più semplicemente, perché il messaggio antispecista arrivi a tutte e tutti fin dall’infanzia. Per essere rispettosi di ogni vita: da animali umani ad animali non umani. Nel nome, appunto, della comune animalità.

NEL NOME DELL’ANIMALITA’
FRANCESCO DE GIORGIO, EDIZIONI L’ETA’ DELL’ACQUARIO, 2020
€ 18,00

MARCO SFERINI

29 settembre 2021

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