Al buio, impreciso e al servizio dei profitti e dell’austerità di ritorno. È il profilo della politica economica emerso dalla conferenza stampa della presidente del consiglio Meloni. Dire, per esempio, che la crescita del prodotto interno lordo è la «più alta in Europa» non solo non è vero quest’anno, ma è infondato a partire dall’anno prossimo. In prospettiva, infatti, l’economia italiana tornerà a essere tra le ultime in rapporto alla crescita. E, invece, si stima che quella tedesca, oggi in recessione, tornerà a crescere di più di quella della Penisola.

L’inversione dei rapporti è stata confermata dalla Commissione europea che è stata straordinariamente clemente con il governo, per sua debolezza e per motivi elettorali. Stesso scenario è stato formulato dalla Banca d’Italia che ha previsto già da quest’anno una crescita di circa la metà rispetto al più 1,2% scritto nella NaDef.

Nel suo eloquio, incartato di certezze fumose, Meloni ha usato il binocolo dei politici italiani più adusi al populismo economico che a un modesto e realistico esercizio previsionale che poi è la base della «triste scienza» economica. Sebbene il ritorno della crescita al prefisso telefonico sia un fatto noto a palazzo Chigi, e al ministro dell’economia Giorgetti, ieri Meloni ha fatto finta di non «sapere quale sarà lo sviluppo dell’economia italiana nel 2024».

Una simile dichiarazione trova una qualche verosimiglianza nel fatto, davvero peculiare, per cui nessuno oggi sembra avere capito come sarà calcolato, e dunque quale sarà quest’anno, l’impatto del Superbonus – additato come il male di tutti i mali per i conti pubblici. Inoltre il governo stesso non conosce se, e quando, la Banca Centrale Europea cambierà la politica monetaria restrittiva adottata per domare l’inflazione.

Se ciò avvenisse, darebbe un po’ d’aria ai bilanci e un po’ di gambe all’iniqua riforma fiscale dell’Irpef a tre scaglioni (totale 14,5 miliardi). È un calcolo basato sull’idea per cui diminuirebbero gli interessi pagati dall’Italia sull’alto debito pubblico, calcolati in una comunicazione angosciata di Giorgetti in «14 miliardi». Ma, appunto, Meloni non lo sa. Le dichiarazioni della presidente Bce Lagarde non sembrano confortare i suoi auspici. Il governo ha dato l’impressione – più che realistica – di un esecutivo appeso a una politica più grande di lui.

Lacunosa, e in difficoltà, è sembrata sopra ogni cosa Meloni sul Patto di stabilità. «Sono soddisfatta ma chiaramente non è il Patto che avrei voluto». Non ha detto che l’accordo garantisce 3 anni di «salvaguardia». L’austerità «dura» entrerà in vigore nel 2027. Il governo si è sistemato fino ad allora. Anche se la sua attuale politica è già l’anticipo di quello che aspetta il paese. La conferenza stampa di ieri è stata esemplare. Meloni ha confermato la vocazione thatcheriana – neoliberale, populista e conservatrice della destra italiana che sta gestendo il ritorno all’austerità. Ha detto che «preferisce tagliare la spesa pubblica e non aumentare le tasse».

È una dichiarazione programmatica già realizzata nella legge di bilancio. Il «taglio delle tasse» da 10 miliardi in deficit – quello al cosiddetto cuneo fiscale – è stato realizzato in base a un’idea economica paradossale ed esemplare: lo pagano gli stessi contribuenti. Non solo, dunque, non produrrà effetti significativi sui salari esangui del lavoro dipendente (si tratta di una costosissima conferma di un taglio già esistente) ma dovrà essere ripagato l’anno prossimo da tutti, non solo da quelli che lo hanno ricevuto in busta paga.

Il governo cercherà di rifinanziare il taglio al cuneo fiscale anche per il 2025, anche se Giorgetti ha detto che è una strada difficile perché bisogna «selezionare gli incentivi» e diminuire il debito. Si dà quindi per certo ciò che non lo è. Il taglio, in realtà, lo pagheranno nei prossimi anni gli enti locali e non solo i ministeri, la cui spesa è stata sforbiciata del 5% in maniera lineare.

Meloni ha auspicato, come in altre stagioni, un taglio più «preciso». Tuttavia si configura un peggioramento dei servizi sociali già allo stremo. Senza contare le irrealistiche privatizzazioni da 20 miliardi. Poste, Ferrovie dello Stato, forse RayWay, e poi Mps sono nel mirino. «Non saranno regali miliardari a imprenditori ben inseriti – ha detto Meloni – ma una riduzione dello Stato dove questo non è necessario e viceversa».

È una conferma delle teorie neoliberali dello «Stato minimo» viste da destra. Con, in più, una fandonia: a chi, se non a gente «ben inserita» andrebbe venduto un pacchetto di azioni o la gestione di un’impresa? Sono i pensieri di una destra che taglia il reddito di cittadinanza, rifiuta il salario minimo, non fa pagare 2 miliardi di tassa sugli extraprofitti alle banche e gioisce per «la Borsa italiana che ha fatto la migliore performance del mondo, siamo stati i primi». Il nazionalismo finanziario, l’ultimo rifugio dei sovranisti senza sovranità.

ROBERTO CICCARELLI

da il manifesto.it

foto: screenshot ed elaborazione propria