Le “grandi dimissioni” di Klotz: dramma o opportunità?

Il professor Anthony Klotz, psicologo e docente presso l’Università del Texas A&M, ha reso nella formula concettuale delle “grandi dimissioni” un fenomeno che si sta osservando in questo biennio...

Il professor Anthony Klotz, psicologo e docente presso l’Università del Texas A&M, ha reso nella formula concettuale delle “grandi dimissioni” un fenomeno che si sta osservando in questo biennio pandemico e, precisamente, appena dopo la fine della chiusura totale messa in atto nel corso del 2020 un po’ da tutti gli Stati del mondo interessati dagli effetti virulenti del Covid-19.

Si tratta di una ridefinizione dei rapporti di lavoro e del lavoratore medesimo con sé stesso, una volta operato il confronto tra il lavoro in presenza nelle aziende e quello svolto da casa con una serie di tempistiche e relazioni che divergono notevolmente dai ritmi e dai rapporti interpersonali che si devono rispettare in un determinato ambito produttivo e rispetto alle persone che si incontrano quotidianamente.

Il tema è di notevole interesse perché riveste molteplici aspetti di un campo di indagine sociologica che troppo spesso viene accostata al mero ambito economico, sottovalutando tutta una serie di implicazioni e complicazioni che, probabilmente, solamente un evento così dirompente come la comparsa del Sars Cov 2 ha potuto disvelare in tutta la sua portata.

Il moderno liberismo capitalistico ha depersonalizzato l’individuo adeguando questa nuova espressione dell’alienazione ai tempi; ha reso inefficaci le analisi del passato, anche molto recente, perché negli ultimi trent’anni alla trasformazione tecnologica della produzione e alla formazione completa del ciclo di accumulazione del capitale, ha aggiunto (e in parte sostituito) nuove tecniche di elaborazione delle materie prime, nuovi contesti in cui gestire tanto la forza-lavoro prettamente materiale quanto quella più spiccatamente intellettuale.

La pandemia ha – se così si può dire senza che ciò appaia una minimizzazione – accelerato la compulsione capitalistica per uno sfruttamento aggiornato del lavoro salariato e ha aperto contraddizioni immanenti che hanno generato quindi, a loro volta, tutta una serie di cascate a domino nelle tante interconnessioni di una globalizzazione economica dove nulla è separabile dal contesto e dal limitrofo.

L’uno e il molteplice si sono così ritrovati in quanto categorie insiemisticamente indissolubili, ontologicamente inconcepibili a sé stanti. Il singolo lavoratore ha vissuto mesi di chiusura totale lontano dal proprio luogo di lavoro, dagli amici, dai colleghi e persino dai tiranneggianti capi cui deve sottostare ogni giorno. Ha provato per la prima volta una realtà completamente nuova, inimmaginabile nella precedente fase, in quel pre-pandemia che oggi appare come un passato così lontano rispetto ai tanti mutamenti cui abbiamo assistito dal gennaio 2020 fino alla fine di questo 2021.

L’errore più grande che si potrebbe fare nel riconsiderare i rapporti tra impresa e lavoro e tra lavoro e lavoratore, potrebbe proprio essere quello di considerare soltanto da un punto di vista economico (e materialistico) i nuovi risvolti e le tante pieghe prese da una mutazione che oggi appare incontrovertibile e votata solamente a produrre nuove mutazioni tanto nella singolarità della vita di ogni individuo che prima aveva una stabile o precaria occupazione in un sito produttivo, quanto nella più ampia realtà di una società che fa i conti con tutte le novità scaraventate dal Covid-19 sull’intera comunità.

Il professor Klotz ha chiamato “grandi dimissioni” proprio uno di questi specifici e nuovi fenomeni evo/involutivi: negli Stati Uniti d’America sono più di 4 milioni e mezzo di operai, impiegati, commesse, dipendenti di ogni tipo che hanno deciso di mettere fine alla loro esperienza di lavoro per cercare nuove soluzioni che contemplino una riacquisizione dei tempi di vita, una rimodulazione dello stile e dei comportamenti anche sociali che tutto questo finisce per condizionare e implicare vicendevolmente e molteplicemente.

Si tratta di lavoratori non soltanto aggrappati all’incertezza di un contratto precario, ma soprattutto di persone che avevano una prospettiva in qualche modo certa di esistenza e che rimettono tutto in gioco perché sopraffatti dai ritmi insopportabili di un impiego, di una sequenza di fotogrammi quotidiani che finiscono con l’annichilire la personalità dell’individuo, estraniarla dal contesto socio-civile e farne una parte anonima del tutto prigioniera di un ritmo giornaliero tanto impersonale quanto extra-personale.

Le “grandi dimissioni” sono un grido ancora poco ascoltato sia dal mondo economico sia da quello accademico che dovrebbe, prima ancora dei capitalisti e dei tanti finanziatori e finanzieri del mercato internazionale, domandarsi cosa spinge una enorme massa di moderni proletari (e pure di ceto medio) a riconsiderare completamente la propria esistenza in un periodo così insicuro ed incerto, privo di garanzie e di tutele come quello in cui siamo ancora completamente immersi.

Rimane da stabilire se questo turn over mansionale dalle dimensioni macro-economiche sia per le lavoratrici e i lavoratori una opportunità o se, invece, lo possa essere proprio per quel sistema dello sfruttamento, dei profitti e delle merci che continua la sua espansione globale nel mutar di pelle con le crisi cicliche che attraversa.

Da un lato potremmo essere innanzi ad una maggiore presa di coscienza, da parte dei salariati, delle loro proprie condizioni occupazionali. Cercare soluzioni alla ristrettezza dei propri tempi liberi (della vita vera e propria…) potrebbe voler dire aver superato quella involontaria ignavia che impediva di accorgersi che lavorare non significa stabilire una giusta equazione con la propria esistenza, con quella di chi ci sta intorno.

Pur essendo nel 2021, i dipendenti devono lavorare ogni giorno ancora quelle 8 ore stabilite all’inizio del secolo scorso e, per giunta, per salari completamente inadeguati agli standard di vita moderni che esigono un livello di consumi esponenziale, se si vuole rimanere nel cerchio della civiltà propriamente detta (un tempo si sarebbe parlato di “stare in società“): si potrebbe facilmente pensare di trovarsi ancora alle soglie del Novecento.

Una dicotomia non da poco, sempre presente tra esigenze produttive e bisogni delle maestranze: il che ci farebbe balzare in un attimo dentro la grande contraddizione irrisolvibile dell’allagamento della forbice tra enormi ricchezze nelle mani di pochi privilegiati e galattiche spade di Damocle della povertà sopra le teste dell’80% della popolazione mondiale.

Dall’altro lato, invece, ci potremmo trovare davanti ad una nuova opportunità per il capitalismo liberista di adoperare a proprio vantaggio l’instabilità economica in chiave anche emotiva, sfruttando tutte le debolezze di una classe sociale molto “in sé” e, per questo, molto poco “per sé“; facendo leva sulla fragilità del singolo dentro una sfera fintamente protettiva generata da un sistema che deve recuperare consenso e che si lascia proteggere dalle tante “fantasie di complotto” che gli sono così funzionali nel mostrare nemici dove non c’è altro se non il più vuoto e banale ipocondrismo antisociale.

Non meno importante, nel rapporto tra lavoratore e cosiddetto “datore di lavoro“, sarà l’adeguamento della sindacalizzazione a queste nuove frontiere della riorganizzazione dei rapporti di produzione e di gestione della medesima in una nuova fase della globalizzazione che la pandemia sembra disegnare. Le organizzazioni dei lavoratori dovranno considerare tutte le variabili possibili, sviluppare delle indagini particolareggiate sui mutamenti intervenuti in questi due anni e, senza sposare pensieri magici o pratiche stregonesche di previsione dell’imperscrutabile, rimanere ben aderenti alla realtà dei dati, facendoli conoscere e dando modo così di operare una comparazione tra l’interpretazione – diciamo così – “padronale” e quella, per l’appunto, della controparte.

Marx ed Engels ci avrebbero probabilmente ammonito a non formulare ipotesi, bensì a stare nella concretezza del presente guardando analiticamente al recentissimo passato, appena dietro noi. Ci avrebbero suggerito di stare ai e nei fatti e di lavorare sindacalmente, ma soprattutto culturalmente e politicamente, per sfruttare ogni singola possibilità che il cammino umano ci offre per piegare a favore del superamento del capitalismo una linea tracciata dalla naturalità dei rapporti di forza tra le classi e soprattutto tra le forze della natura e la specie umana.

La pragmaticità degli atti, unita allo studio dei dati, insieme ad un rinnovamento politico della sinistra di alternativa potrà servire alla causa dell’emancipazione e della giustizia sociale.

MARCO SFERINI

30 novembre 2021

foto tratta da Pixabay

categorie
Marco Sferini

altri articoli