La liceità del dubbio e il bivio isterico degli interventisti

C’è il pericolo che il dubbio passi dall’essere, da qualche anno a questa parte e, più ancora, da una cinquantina di giorni, una opportunità stimolante per avere sempre più...

C’è il pericolo che il dubbio passi dall’essere, da qualche anno a questa parte e, più ancora, da una cinquantina di giorni, una opportunità stimolante per avere sempre più chiari gli accadimenti che ci circondano (anche massmediologicamente parlando) ad un’arma a doppio taglio o, se volete una metafora meno bellicista, a somigliare ad un vero e proprio boomerang.

Distinguiamo: le cronache dei giornalisti che si trovano in Ucraina sono il racconto di ciò che vedono, sommando a tutto questo le naturali percezioni che hanno, stimolati da un teatro di guerra spietata, dove l’orrore non arriva dopo cinque anni di conflitto, come nel caso dello scontro tra il Terzo Reich e il resto (o quasi) del mondo. No, qui l’inguardabile agli occhi, il ribrezzo e la commozione per il martirio delle vittime arriva con l’immediatezza di un’epoca dove tutto è più freneticamente veloce: dalle informazioni alle disinformazioni, dai video sul campo alle alterazioni degli stessi grazie alle app dei computer e dei telefonini.

Ed arrivano spedite anche le istantanee di tutti quei cadaveri: carbonizzati come a Pompei, persino smagriti come nei lager nazisti, segno che l’assedio delle città in qualche modo ha funzionato ed è piombato tutto quanto sulla popolazione civile, scarnificandola, consumandone mente e corpo, psiche e membra. Cadaveri legati mani e piedi, abbandonati per le vie principali delle città a nord di Kiev. Cadaveri che sollevano i dubbi.

Ed è qui che il boomerang fa il suo plateale e ingeneroso ingresso, accompagnato dalla certezza assoluta di un’altra ampia fetta della sala da cui si assiste alla tragedia ucraina: i programmi televisivi fanno parlare, analizzare, sottilizzare e scandagliare tutte le ipotesi possibili. Dal tatticismo alla strategia di lungo corso; dalla geopolitica mondiale al ristretto, angusto, miserrimo politicanteggiare di casa nostra che, davvero molto pateticamente, troneggia l’alternativa: «Volete la pace o volete tenere accesi i condizionatori questa estate?».

Da un banchiere esperto anche di relazioni politiche ci saremmo attesi uno scadimento più elegante, una meno vigorosa enfasi nel proporre il destino che ci attende nel periodo dei mesi caldi. Qui il dubbio si ammanta di altre mascheramenti: diventa alternativa improbabile tra una messa al riparo dell’economia italiana dall’essere “economia di guerra“, sposando lo stop-gas russo che l’Europa intende dare come peunltimatum a Putin, e l’antietico ricatto del senso di colpa, caso mai gli italiani pretendessero (non si sa bene come potrebbero concretizzare, poi, questa pretesa…) di godere del fresco artificiale che – peraltro – nuove gravemente alla salute del pianeta.

La pochezza della grandezza di un Draghi, messo soltanto una decina e più di mesi fa sul piedistallo dai signori che lo nascono grazie al diritto ereditario e alle industrie che hanno in mano, non è dimostrata, del resto, soltanto dalla frase sulla insopportabilità della calura agostana, ma dalla sovrastima della crescita del PIL: per il governo si può arrivare persino al 5,6% nel periodo autunnale, mentre per i più pragmatici associati di Confindustria la ricchezza crescerebbe soltanto dell’1,9%. Con gli interventi dell’esecutivo balzerebbe (si colga l’ironia, prego…) al 2,1%, ammesso e non concesso che la guerra termini proprio nell’estate del primo anno quasi post-pandemico.

Ma il dubbio torna e ritorna, aleggia impietoso sui cadaveri dei civili intorno a Kiev e sulle economie nazionali che si frazionano sulle misure da prendere per provare a fermare Putin, perché non esistono veri interessi comuni in Europa, ma tanti interessi particolari che trovano – di volta in volta – minimi comuni denominatori, consonanze e fragili simbiosi nel fronteggiarsi in sottoinsiemi prigioni, lo si voglia o meno, del più ampio contesto eurocontinentale.

Ed il dubbio dei complottisti e negazionisti delle stragi russe in Ucraina non è meno inquietante del dubbio, più benevolmente tecnico e politico, riguardante il fatto che questo governo ci abbia portato dentro una economia bellica senza avere una bussola, navigando a vista, un po’ come durante l’ultimo anno del biennio pandemico, quando le contraddizioni sulle disposizioni sanitarie hanno toccato l’apice e ricevuto le più giuste critiche anche da chi pensava – come lo scrivente – che il Green pass fosse necessario per evitare altre chiusure indiscriminate.

Se, nel caso dell’esegesi delle cronache giornalistiche sul campo di battaglia, il dubbio può essere processato per incapacità di intendere e di volere, nelle menti (e nelle mani) di coloro che pretendono di farlo andare oltre la sua funzione incalzante in un rapporto dialettico diciamo “normale“, di mutuo stimolo alla ricerca della verità circostanziata dal maggior numero di fatti riscontrabili, nel caso invece della critica verso il governo italiano, per le stime di crescita economica e per l’assoluto appiattimento sulle posizioni nord-atlantiche, il dubbio deve essere critica senza se e senza ma.

C’è la necessità democratica di dubitare fortemente dell’autostima che questo esecutivo si è ritagliato per contorno e si è fatto cucire addosso. L’aumento delle spese militari, l’abolizione dell’IVA sugli armamenti, la condivisione dell’interventismo passivo (per distinguerlo dalla guerra propriamente detta e fatta) della NATO e degli USA, sono tutti elementi di accusa verso uno scostamento incostituzionale del nostro Paese ai confini di un conflitto in cui siamo entrati fingendo di essere solo delle crocerossine da campo.

Sono anni che gli Stati Uniti d’America addestrano l’esercito ucraino, persino nell’utilizzo di droni-kamikaze, e riforniscono di armi sofisticate Kiev. La preparazione della guerra, nonostante venga opportunamente mostrata all’opinione pubblica come sequela di azioni volte alla deterrenza e alla protezione del popolo (lo si vede molto bene dalle stragi di Bucha e dall’assedio criminale di Mariupol), è riscontrabile da quasi un decennio in quell’Est europeo dove la NATO si è espansa fino ai confini della Federazione russa.

Il dubbio che tutto questo c’entri anche solo un pochino con il furibondeggiare omicida di Putin e del suo regime autocratico e oligarchico, può lecitamente essere messo sul piano del confronto delle idee? Oppure si rischia l’arresto preventivo, il processo senza testimoni e avvocati difensori e la condanna a priori per alto tradimento nei confronti della buona creanza dell’opinione comune architettata ed eterodiretta dagli informatori sui fatti che ci vengono cronachisticamente descritti dal fronte?

Anche a volerla minimizzare, per sentirci un po’ meno simili a costoro che la praticano, una isteria tendenzialmente di massa sulla imprescindibile necessità dello schierarsi c’è e si fa più veemente ogni giorno che passa.

O con noi o contro di noi“: il bivio dirimente, da consegnare alle pagine della Storia come scelta quasi ante litteram, sagace e intuitivamente arguta, intelligente e persino politicamente astuta, uniforma tutto e tutti: se azzardi un dubbio sei “putiniano“, se sposi la certitudine come linee di condotta morale e da social-opinionismo, allora sei dalla parte giusta della barricata. Di là solo favoleggiatori e complottisti, in un calderone indistinto per alimentare la confusione (che, infatti è già tantissima); di qua solo persone perbene, pragmatici amici della democrazia e delle libertà civili.

Peccato che le libertà sociali non facciano il paio con tutta questa voglia di democrazia che hanno, ad esempio, le forze della maggioranza di governo. Sono dicotomie anche queste di una certa rilevanza ma, di sicuro, ben poco attribuibili all’attuale clima di guerra: semmai il governo utilizza proprio il conflitto per modificare i piani di intervento politico nell’economia del Paese. Non ne può venire fuori nulla di buono: lo scontro di classe (o quello che dovrebbe essere tale) aumenterà, perché a discapito del potere di acquisto di salari e pensioni, vengono incrementate le spese militari e i capitoli afferenti ad un “ammodernamento” del sistema di difesa.

Una politica che ha il sostegno dei commentatori di geopolitica tra i più esperti, che vanno in televisione a propagandare la bontà delle misure dell’esecutivo, la sua oculatezza nell’adeguare l’Italia agli standard che la guerra richiede. Per quanto possa adeguarvisi un Paese come il nostro, dove stazionano già un bel numero di basi della NATO, campi di addestramento, stoccaggi di armi di ogni tipo, F35 già costruiti per essere venduti a quelli che poi definiamo “Stati canaglia” e altri per essere tenuti qui, sul suo italico, pronti magari a servire le operazioni che Biden e Stoltenberg, la disparità tra politica interna e politica estera (e militare) sarà destinata ad allargarsi.

La dipendenza dell’Italia (e dell’Europa) dalle decisioni statunitensi non è certamente una scoperta di oggi, non è un prodotto dell’attuale stato di guerra nel Vecchio Continente. Ma proprio questa contingenza potrebbe fare in modo di diminuire ulteriormente il margine di agibilità del nostro Paese in materia di relazioni internazionali, vincolandolo mani e piedi alle politiche imperialiste americane e all’espansionismo dell’Alleanza Nord-Atlantica che è una delle ragioni precipue per cui oggi siamo qui a scrivere e discutere di guerra.

I dubbi, pertanto, devono poter essere legittimati. Soprattutto quando l’informazione tende a sovrapporsi eccessivamente alla linea politica di condotta delle guerre. Quella che chiamiamo “propaganda” è proprio questo: una aderenza tra il piano cronachistico e l’interpretazione che i giornalisti danno dei fatti, adeguandosi al clima bellico, alle direttive delle amministrazioni dei singoli Stati, non necessariamente impartite ma meglio se “suggerite“.

Mantenere un certo distacco critico non può che fare bene, preservandoci da una ingenuità indotta da chi vorrebbe semplificare gli eventi così tanto da rendere la complessità un accidente dell’attualità e, domani, della Storia che si potrà scrivere. Un giusto distacco è utile, un sospetto permanente diventa invece ossessione nevroticamente complottista: lo abbiamo già sperimentato con il Covid-19 e, almeno in questo caso, proviamo ad imparare la lezione.

MARCO SFERINI

8 aprile 2022

foto: screenshot

categorie
Marco Sferini

altri articoli