Il voto e la scissione tra democrazia formale e sostanziale

Le elezioni amministrative si avvicinano e le città che vanno al voto si riempiono di manifesti sei per tre, settanta per cento, con i volti più diversi, con gli...

Le elezioni amministrative si avvicinano e le città che vanno al voto si riempiono di manifesti sei per tre, settanta per cento, con i volti più diversi, con gli slogan più inflazionati. C’è poco di nuovo tanto nelle facce quanto nelle parole usate per solleticare la volontà dei cittadini e dirigerne pensiero e tratto di matita sul simbolo di cui si fa parte. Si ripete un copione certamente democratico, eppure così stagnante, quasi fosse di prammatica piuttosto che un dovere verso un impianto istituzionale repubblicano che si uniforma alla volontà popolare.

Le elezioni, come le guerre, tirano fuori dalle persone il peggio del peggio, perché esaltano l’ego e lo portano a vertici mai visti, facendo dei candidati (non tutti, ovviamente) uno strumento di sé stessi, avvitati nella propria proposta fisica prima ancora che politica: ci si mostra ben pettinati, vestiti elegantemente, ma pure casual, con lo sguardo a volte fiero e altre volte sornione. Ognuno cerca la sua espressione, una fisiognomica che si tende a volte di celare, altre volte di manifestare senza alcun infingimento come a dire: «Ecco, ci metto la faccia, tutta quanta, guardatela pure: è una faccia onesta, sincera!».

Tutto per il bene comune, si intende. Quel tanto di presunzione, unitamente ad una goccia di ambizione per alcuni, ad una intera vasca poppeiana di maquillage di bellezza politica per altri: ci si rifà il trucco, uomini, donne, candidati transgender, non binari, pansessuali. Tutto serve per dimostrare la buona fede di partenza. All’arrivo, dopo i cinque anni di mandato da sindaco, assessore o consigliere comunale, beh… mica si sa come sarà la pelle idratata dalla retorica della campagna elettorale.

Ad ogni angolo delle città ti spunta addosso un cartellone che ti ammonisce, di ammansisce, di redarguisce e ti suggerisce. Insomma, “isce” sempre qualcosa, tra una desinenza e una radice verbale ci sta di mezzo davvero il mare magnum dell’ipocrisia che perverte le più belle menti e i propositi che si sono dati fino a pochi attimi prima l’inizio del mese in cui, senza esclusione di colpi, ormai si giocano partite truccate dalle regole create ad arte per privilegiare, sempre molto democraticamente e nel pieno spirito della nostra Costituzione, chi ha più consensi e penalizzare chi prova ad averne. Magari per la prima volta.

Partite truccate, dunque, ma pure inquinate da un arrivismo che si lega molto bene alle disponibilità economiche: non solo le leggi elettorali aiutano la democrazia a fustigarsi e a pentirsi di voler trattare – almeno formalmente – tutti egualitariamente sul piano del diritto positivo, civico, civile (oltre che sociale…), ma la grandezza del portafoglio fa tutto il resto: se hai i soldi puoi affittare tutti gli spazi pre-elettorali che vuoi; puoi comperarti su Internet pubblicità di ogni tipo; puoi aprire una linea di merchandising niente male e farla poi pagare all’intera lista se le cose vanno male e non realizzi ciò che ti aspetti.

Puoi persino ritenerti, seppure velatamente e senza farlo troppo capire (ed è proprio così che lo si capisce invece benissimo) che in fondo quella lista senza di te poco conterebbe: perché non avrebbe risorse da spendere, perché dovrebbe fare una campagna elettorale limitata rispetto alle aspettative del tuo ego, della tua voglia di essere qualcosa in più di ciò che sei. Tutto per il bene comune, per la città in cui vivi e alla quale dimostri così di volere un enorme autoctonico amore.

Questo tipo di approccio al voto, alla ricerca della delega popolare (in questo caso “cittadina“) è respingente, allontana le persone da quella necessaria simbiosi tra elettore ed eleggibile che dovrebbe invece essere un progetto senza soluzione di continuità tra protesta e proposta, tra richiesta e promessa.

Appunto, le promesse. Qualcuno le chiama “impegni“, altri “contratti con gli italiani“, ma alla fine rimangono lettera morta perché sono della stessa fattispecie della carta dei manifesti che campeggiano nelle città: si incollano per un po’ nelle menti, forse anche nei cuori di chi non è completamente disilluso da questo modo di fare politica (ma lo diventerà presto), e poi scoloriscono al sole, si rattrappiscono e abbandonano la loro postazione, cadono a terra e prendono la via o del bidone dell’immondizia o quella che il vento, più gentilmente, gli concede.

La scissione tra democrazia rappresentativa e democrazia sostanziale trova qui un completamento ideale, quasi perfetto, perché la prima sfrutta in tutto e per tutto la seconda per poterla lentamente sostituire nei luoghi dove si prendono decisioni che sono influenzate, a seconda di chi ha la gestione istituzionale tanto locale quanto nazionale, da indirizzi di ordine economico ben precisi. La ricezione di queste linee guida liberiste varia da forza politica ad altra forza politica. Chi esclude di potersi fare influenzare viene tenuto a debita distanza, in una impotentia che limita il diritto a fare ed essere cambiamento, senza troppa enfasi coercitiva, senza decreti, norme che possano essere impugnati o denunciati come aperta violazione della sostanzialità costituzionale.

Per questo le leggi elettorali sono, da decenni ormai, delle vere e proprie truffe legalizzate. Per questo la democrazia ha perso il suo più genuino significato e viene mantenuta in vita solo per poter affermare che esiste, che nessuno è intenzionato a non far parlare l’avversario, il dissenziente, il dissidente.

Poi ci sono campagne elettorali singole che sono meritevoli, perché tentano di recuperare una altezza della politica come arte, come espressione di una passione ancestrale che, proprio perché tale, non può che essere incontaminata rispetto alle tante tentazioni governiste e ai tanti egocentrismi più o meno manifesti. Sono le campagne elettorali più povere, quelle fatte con mezzi insufficienti, se confrontati ai candidati assistiti dai moderni “think tank“. Sono le campagna elettorali che fanno sperare la democrazia stessa di poter essere un giorno restituita a sé stessa, liberandola dalle tante violenze che le sono e che le vengono fatte.

La lacrima della tristezza scende quando si pensa alle tante compagne e ai tanti compagni sedotti da questo immorale e incivile modo di fare politica, di pensarsi votati alla costruzione di una nuova stagione di riforme e di interventi che finiscono con l’essere funzionali ad una stabilità che non è giusta, che non è equa, che non è sinonimo di uguaglianza, ma di continua alimentazione del privilegio, della discriminazione soprattutto economica, di ceto (anti)sociale. Non si tratta di fare del pauperismo una virtù.

Tutt’altro. Si tratta di escludere gli estremi opposti: l’allontanamento dalla vita politica per totale disillusione da un lato e, dall’altro, l’immersione completa nel conformismo odierno, divenendo resilienti per moda, per costume, per convinzione, per uniformità. Per piacere ed essere accettati nel salotto delle ritualità quotidiane che fanno strame della critica sociale, della critica in generale.

Ricomporre la scissione tra democrazia formale e sostanziale è un compito che solo una sinistra di classe, che vede e che si accorge di questo profondo iato tutt’oggi esistente, può assumere come parte civile di una Repubblica sempre meno pubblica, sempre più individualistica e privatizzata.

MARCO SFERINI

28 agosto 2021

foto: screenshot

categorie
Marco Sferini

altri articoli