I licenziamenti in massa e la sindrome della rassegnazione

La facilità con cui licenziano i propri dipendenti questi giganti, questi colossi, questi mostri leviatanici moderni della grandissima, globale interattività internettiana, della comunicazione universale, è una ennesima dimostrazione della...

La facilità con cui licenziano i propri dipendenti questi giganti, questi colossi, questi mostri leviatanici moderni della grandissima, globale interattività internettiana, della comunicazione universale, è una ennesima dimostrazione della indiscriminata spietatezza del liberismo che, anche a sinistra, troppi da lungo tempo hanno abbracciato come modello di sviluppo.

Amazon, Google, Microsoft, Twitter e molte altre aziende che sono i titani di un mondo tutt’altro che mitico, ma crudamente reale, costituiscono una sorta di strato fenomenologico del concreto, un perimetro molto ampio di analisi della fase, ultima soltanto cronologicamente parlando, del liberismo nato ormai mezzo secolo fa e strutturatosi come espressione controversa di una sinergia tra riconversione economica e finanziaria del capitale attraverso lo “Stato forte“, il potere istituzionale che governa le masse piuttosto che rappresentarle.

Il dramma è per l’appunto consistito nella torsione antisociale di un processo di adeguamento dei valori della sinistra, pure moderata e socialdemocratica di fine ‘900, dai canoni di un modernismo che tenesse conto di una specie di pragmatismo tutto alieno a quella “sognantegauche dell’utopismo marxista alla concretezza di una quotidianità del reale intesa soltanto come variabile dipendente dalle logiche del mercato.

Si è passati, in questo modo, nel giro di qualche decennio, dal confronto con un capitalismo da “mitigare” ad un capitalismo da adorare, da venerare e da fare proprio in una sorta di limbo dell’ineluttabilità, un purgatorio delle incoscienze di tanti dirigenti ex comunisti che hanno preferito la pagina scritta del governismo a tutti i costi, dell’utilitarismo distorto del voto, delle diseguaglianze da attenuare ma non da sovvertire ed eliminare, all’impegno di vergare una nuova storia per la sinistra italiana ed europea.

La difficoltà con cui, soprattutto oggi, in mezzo alle nuove sfide di un millennio che preannuncia con certezza la catastrofe globale, intrisa di pandemie, guerre e sconvolgimenti ambientali, si fa largo in Italia la ricomposizione di un campo dell’alternativa di sinistra, è la conferma di un difficile abbandono di un lascito politico e antisociale che abbraccia gli ultimi due decenni del secolo scorso e i primi due certamente in cui siamo stati e siamo immersi fino al collo.

La mancanza di un contraltare critico, essenzialmente politico, ha ingenerato un nuoto teorema facilmente dimostrabile con tutta la banalità del male moderno di un sistema che avverte tutti i limiti della Natura e della sua natura nei confronti della Natura stessa. Se non sarà, infatti, una azione dell’essere umano a capovolgere questo disastro di economia antisociale, incivile e immorale, sarà il pianeta a ribellarsi – come sta già, del resto, facendo – e metterà molto brutalmente fine agli abusi che lo sviluppismo a tutti costi ha portato avanti fino ad oggi da due secoli e mezzo a questa parte.

I licenziamenti di decine di migliaia di dipendenti, inseriti in questo quadro veramente desolante, possono apparire un effetto secondario del liberismo sfrenato. Eppure non lo sono. Il “The Economist” riferisce che il taglio al personale deciso da Meta e, più nel particolare da Facebook, riguarda ben il 13% dell’intera forza lavoro aziendale. Significa che siamo davanti ad uno dei più corposi licenziamenti di massa nella storia del comparto tecnologico statunitense.

Soltanto nei primi mesi del 2022, proprio negli USA, erano stati lasciati a casa da varie aziende del settore oltre cinquantamila addetti ai lavori. Non si tratta di interventi di rimodellamento delle tattiche da far vertere sul piano concorrenziale del mercato, ma di veri e propri cambi di strategia globale, di un adeguamento agli standard produttivi che associano blocchi di assunzioni a tagli sulla produzione, ridimensionamento delle mansioni, ristrutturazioni aziendali che sono causate dagli effetti di mutamenti macroeconomici.

Tra i più importanti, per ricaduta nei vari settori trainanti del cosiddetto “sviluppo” liberista, c’è senza dubbio l’innalzamento dei tassi di interesse da parte delle grandi banche nazionali e delle centrali di governo del costo del denaro e delle transazioni finanziarie. Per venire fuori da questa impasse, genialità dell’imprenditoria come Mark Zuckerberg hanno provato ad andare oltre all’immaginazione stessa, pensando, ad esempio, alla creazione di realtà virtuali quali il “metaverso“: piattaforme digitali allucinogene e ologrammatiche, qualcosa di veramente difficile da concepire.

La crisi è tanto grave, e così tanto preme sulle grandi aziende della Silicon Valley, da alterare le fondamenta produttive, abbandonando vecchi progetto o innovazioni che finiscono con l’essere superate dalla velocità con cui i mutamenti globali si impongono su quelle che, forse un po’ impropriamente, ancora appaiono come economie nazionali.

Se Zuckerberg e Musk tagliano con l’accetta i grandi comparti produttivi che contribuiscono al consolidamento di svariati punti di PIL dei loro paesi, è evidente che, al netto delle dichiarazioni ottimistiche dei capitalisti stessi, protesi a vedere nelle decine di migliaia di licenziamenti il primo passo per un rilancio delle loro aziende, la ristrutturazione mondiale dell’economia è, soprattutto dopo la pandemia e pienamente dentro il contesto della guerra tra i blocchi imperialisti che si fronteggiano in Ucraina, non in una fase temporanea, ma al principio di una rivoluzione tutta nuova.

Esiste poi anche il fenomeno dei licenziamenti in massa che sono opera non dei datori di lavoro, bensì dei lavoratori stessi.

Non è una isteria collettiva, qualcosa di attribuibile ad un fenomeno modaiolo, ad una contagio collettivo, ma invece un effetto dell’instabilità delle aziende stesse, del loro modo di produrre, del loro concepirsi oggi, nel liberismo modernissimo, come resilienti al punto tale da essere qualcosa di “provvisorio” invece di rappresentare un punto fermo nella vita tanto dei dipendenti quanto dei padroni e dell’azionariato.

Il giocattolo sfugge di mano persino a chi lo ha maneggiato da sempre con molta cura per ottenerne i maggiori profitti. A volte, come nel caso dei licenziamenti in massa dopo l’acquisto di Twitter da parte di Musk, gli effetti registrabili nelle borse di mezzo mondo sono degli imprevisti: le azioni salgono immediatamente e altrettanto repentinamente scendono di valore, calano vertiginosamente.

Ma se per le aziende lasciare a casa decine di migliaia di lavoratori può anche essere un effetto della crisi globale, dell’innalzamento dei costi di materie prime, di scambi e di importazioni (oltre, ovviamente, che di immissione dei propri prodotti sul mercato con un maggiore gravame sulla filiera delle esportazioni), per tantissimi salariati il proprio licenziamento, deciso autonomamente, seguendo tuttavia una tendenza che si consolida, è una reazione che mira a riprendersi degli spazi e dei tempi di vita.

Circola questa frase, a suggello sintetico di concetti più ampi e profondi che sono analisi sociologiche e antropologiche dell’oggi dentro i processi micro e macroeconomici: «Great resignation, big quit e smart working («Grande rassegnazione, grandi licenziamenti e lavoro da casa»). Questa è l’epigrafe da porre sulle magnifiche sorti e progressive del liberismo: prima di tutto l’incapacità nel mondo del lavoro di vedere un futuro certo se pensato in termini di occupazione stabile e garantita.

Non sono soltanto i calcoli degli azionariati e dei dividendi dei consigli di amministrazione delle grandissime aziende a spaventare le lavoratrici e i lavoratori, con le loro conversioni produttive, improvvise delocalizzazioni, capovolgimenti di tattiche interne e di strategie esterne. Sono soprattutto i ritmi di insopportabilità del lavoro che fanno raggiungere quella rassegnazione che impedisce la programmazione minima di un’esistenza degna di questo nome.

La flessibilità, che non risolve nessuno dei problemi appena citati, è vista come una possibilità di adeguamento a ritmi di vita compatibili con le tante difficoltà sociali e con la bassissima qualità dei propri diritti tradotti nella sostenibilità quotidiana di sé stessi e della propria famiglia.

Come a metà dell’800, quando i borghesi accusavano i comunisti di voler abolire i nuclei famigliari nel nome di non si sa bene quale spaventevole involuzione comunistica degli stessi, anche oggi è sempre e soltanto il capitale a rovesciare i rapporti personali, a separare le congiunzioni, a disarticolare ciò che uomini e donne vorrebbero costruire in modo del tutto naturale, senza guardare al colore della pelle o al proprio istinto e desiderio sessuale.

La decomposizione di una economia priva di una certezza di crescita globale, ma anzi altalenante tra competizione imperialista in guerra ed emersione sempre più prepotente del gigante asiatico che si stanzializza in diverse aree del pianeta (prima fra tutte l’Africa di un neocolonialismo strisciante ma ben evidente), non lascia grandi margini di recupero di quella rassegnazione che induce molti salariati ad abbandonare il loro posto di lavoro.

Non esistono più certezze, punti di sostegno, appigli cui aggrapparsi per intravedere un progetto di futuro immediato per sé stessi e per chi ci sta intorno.

La rassegnazione non può, tuttavia, diventare il riferimento ideale, ideologico persino, civile e morale di una società che intende lottare contro tutto questo sfrangiamento di rapporti, contro questa atomizzazione tanto delle coscienze quanto della materialità dell’esistenza. Occorre reagire e scovare le contraddizioni del capitalismo di oggi fin dentro i minuscoli microcosmi dei nostri luoghi di lavoro, di precarietà, di disagio sociale e inserirvisi per costruire, attraverso una azione politica e sindacale ritrovata e rinnovata, una alternativa credibile e convincente.

Lavorare da casa potrà anche sembrare un timido ricongiungimento con l’esistenza, con la vita di famiglia, con i tempi e i modi con cui si vorrebbe avere a che fare per essere meno infelici. Ma è uno specchietto per le allodole, una resipiscenza infelice, una vera e propria illusione. Soltanto la condivisione dei rapporti singoli può dare adito ad una nuova opposizione di classe a questo capitalismo depressivo e deprimente.

Soltanto la comunanza dei problemi, e non la singolarizzazione autoreferenziale degli stessi, chiusi nelle nostre case e fuori dal mondo, può darci qualche speranza in questo senso. Altrimenti, ancora una volta, vince il capitale.

MARCO SFERINI

28 gennaio 2023

Foto di Rosy da Pixabay

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