Tra gli innumerevoli crimini di cui si è macchiato Augusto Pinochet, dittatore macellaio e oltretutto ladro (considerando il patrimonio illecitamente accumulato da lui e dai suoi familiari), va ora inserito anche l’avvelenamento del grande Pablo Neruda. Di colui, cioè, che era stato insignito nel 1971 del premio Nobel per la letteratura e che Gabriel García Márquez avrebbe definito «il più grande poeta del XX secolo, in qualsiasi lingua».

I sospetti della famiglia – e certo non solo di quella – erano dunque fondati: le ulteriori analisi effettuate da un pool internazionale di esperti sui resti del poeta cileno hanno confermato la presenza di una tossina, già individuata per la prima volta nel 2017, che ne avrebbe causato la morte il 23 settembre del 1973. «Adesso sappiamo che il clostridium botulinum non avrebbe dovuto essere presente nelle ossa di Neruda e che è stato assassinato da agenti dello Stato cileno», ha detto il nipote del poeta, Rodolfo Reyes, anticipando i risultati ufficiali dell’inchiesta.

C’erano stati peraltro sempre dei dubbi sulla sua morte, avvenuta all’età di 69 anni, ufficialmente per il cancro alla prostata, nella clinica Santa María di Santiago, dove Neruda era stato portato il 19 settembre: la stessa clinica nella quale, il 22 gennaio 1982, sarebbe stato assassinato il democristiano Eduardo Frei Montalva.

Secondo testimonianze dell’epoca, Neruda non era infatti in fin di vita al momento del ricovero, nonostante fosse gravemente malato: sarebbe stato un sicario di Pinochet, un agente segreto della Cia di nome Michael Townley, ad accelerarne la morte con «un’iniezione letale».

Come riferito dalla moglie Matilde Urrutia, l’ultimo suo grande amore, Neruda stesso aveva telefonato dall’ospedale profondamente preoccupato, perché, «mentre dormiva, nella sua camera della clinica alcune persone erano entrate e gli avevano iniettato qualcosa nell’addome». Quando l’autista Manuel Araya e la moglie erano arrivati a Santiago, avevano trovato il poeta, prima indebolito ma in discrete condizioni, con un’improvvisa febbre e segni di arrossamento dove gli era stata praticata l’iniezione. A fargliela era stato un certo dottor Price, il cui identikit coincideva con l’aspetto fisico di Michael Townley.

Tanta era la fretta di soffocare la sua voce libera e ribelle che il regime non aveva neppure avuto la pazienza di aspettare che morisse per cause naturali. Né aveva evitato un ultimo sfregio: la devastazione delle sue abitazioni a Valparaíso e a Santiago, mentre Neruda giaceva nel suo letto d’ospedale.

Quanto ad Araya, sarebbe poi stato arrestato e torturato per dieci giorni nel campo di concentramento dell’Estadio Nacional.

Era stato del resto proprio per chiarire il mistero sulla sua morte che la salma di Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto – questo il vero nome di Neruda – era stata riesumata dopo 40 anni dalla morte, l’8 aprile 2013, benché all’epoca l’ipotesi dell’assassinio fosse stata smentita dal referto sugli esami radiologici e istologici effettuati sui suoi resti, nei quali era emerso, come già era noto, appena lo stato molto avanzato del suo tumore alla prostata. Ci sarebbero voluti altri dieci anni per fare finalmente chiarezza.

Solo 12 giorni prima di morire, Neruda aveva dovuto assistere al colpo di stato di Pinochet contro Salvador Allende, suo amico personale: nel 1970, quando il Partito comunista lo aveva nominato candidato alla presidenza del Cile, il poeta non aveva esitato a rassegnare le dimissioni per garantirgli il suo appoggio, aiutandolo a diventare il primo presidente socialista democraticamente eletto nel paese. E Allende lo aveva ripagato nominandolo ambasciatore presso la sede di Parigi, da cui poi il poeta era dovuto andar via a causa del tumore alla prostata.

La sua era stata del resto una vita da instancabile viaggiatore: era stato, tra l’altro, console a Colombo, nell’attuale Sri Lanka, e poi a Singapore, finché nel 1934, dopo aver conosciuto Federico García Lorca a Buenos Aires, non si era trasferito in Spagna, assumendo la direzione del consolato cileno a Madrid. È qui, in particolare, che aveva abbracciato con convinzione gli ideali marxisti, tanto più dopo la barbara uccisione, da parte delle forze del generale Franco, del suo amico García Lorca.

Lasciata la Penisola Iberica, Neruda si era recato a Parigi, da dove aveva continuato a sostenere con convinzione il fronte repubblicano. Quelle convinzioni comuniste non le avrebbe comunque mai perse, neppure dopo aver fatto autocritica rispetto alla sua iniziale ammirazione per la figura di Stalin.

Tornato in Cile ed eletto senatore per le province di Tarapacá e Antofagasta, il poeta si era ben presto messo nei guai: il suo discorso pronunciato il 13 gennaio del 1948 contro il dittatore Gabriel González Videla, a causa della violenta repressione dei minatori in sciopero nella regione di Bío-Bío – discorso passato alla storia come «Yo acuso» – gli era costato un dolorosissimo esilio durato fino al 1952.

La sua vita tumultuosa e appassionata non ha avuto l’epilogo che meritava. Già in quei pochi giorni dopo il golpe, il poeta ne aveva cominciato a sperimentare le conseguenze anche sulla sua pelle: durante una delle perquisizioni ordinate contro di lui dal generale traditore e golpista Pinochet, Neruda avrebbe detto ai militari: «Guardatevi in giro, c’è una sola forma di pericolo per voi qui: la poesia».

Ma se gli ultimi giorni della sua vita erano stati segnati dal dolore per la violenta fine della grande esperienza democratica del presidente Salvador Allende, il suo funerale avrebbe però rappresentato una delle prime espressioni di opposizione alla dittatura, malgrado la presenza ostile e intimidatoria dei militari con il mitra spianato sui partecipanti: per quanto molti di loro avessero inneggiato ad Allende, i soldati non avevano osato intervenire. Non in quel momento, perlomeno, perché più tardi diversi tra i presenti sarebbero finiti in carcere o desaparecidos.

A ricordare la morte e le esequie di Pablo Neruda, definito semplicemente «il Poeta», è stata anche Isabel Allende, allora presente alla cerimonia, nel romanzo La casa degli spiriti.

CLAUDIA FANTI

da il manifesto.it

foto: Wikipedia