Economia e populismo

Mi permetto di riprendere pari pari, come titolo, l’occhiello di un articolo di Dario De Vico apparso il 17 luglio sulle colonne del Corriere della Sera. Occhiello che sovrasta...

Mi permetto di riprendere pari pari, come titolo, l’occhiello di un articolo di Dario De Vico apparso il 17 luglio sulle colonne del Corriere della Sera. Occhiello che sovrasta il titolo “Se avanza lo Stato Padrone. Così l’Italia sta rottamando l’idea di un mercato aperto” Con il catenaccio: “Dalle privatizzazioni degli anni’90 alla tentazione di riprendersi tutto”.

Un articolo dal quale, lo si può affermare subito quasi come sintesi a priori, emerge una qual nostalgia per il “governo – azienda” emanazione del “partito – azienda” (e relativo conflitto d’interessi).

A un certo punto dell’articolo De Vico scrive: “Consci di aver lasciato passare l’autobus a due piani di Cavazzuti a un certo punto ci siamo illusi di poter supplire a quel progetto (dell’innesto in Italia della cultura d’impresa anglosassone n.d.r) con l’italianissima iniziativa dal basso”.

E’ nato così, scrive De Vico, un “capitalismo leggero” molto aperto alla competizione internazionale con il limite che stava proprio dentro alla ridotta dimensione dei suoi soggetti.

E aggiunge: “Il virus ha rafforzato ovunque il ruolo degli Stati, ovvero il “capitalismo politico” (la diversità con il “capitalismo di stato?” n.d.a) e se questa tendenza finisce, come da noi, in dote a governi che diffidano delle imprese, amano esibire i capri espiatori e praticano il populismo delle tariffe. Il cerchio si chiude. E’ quanto sta avvenendo in Italia, dove abolire la povertà e abbattere i Benetton è diventato il programma da esibire in favore di telecamere”.

La situazione è ben descritta anche se l’analisi che si sostiene nell’articolo suscita un interrogativo immediato e ci riporta alla domanda iniziale: lo scopo non sarà forse quello di suscitare nostalgia per il governo del “partito – azienda”?

Le responsabilità della fragilità congenita dell’economia italiana sono dovute ad alcuni fattori concomitanti a cavallo tra la fine del ‘900 e l’inizio del ‘2000: l’assunzione di un modello di sviluppo sbagliato e la dismissione di assetti fondamentali come nel caso di un passaggio dall’elettronica all’editoria; la realtà “liquidatoria” esercitata al riguardo del sistema delle PPSS e dello scioglimento dell’IRI; la “falsa” privatizzazione di un settore fondamentalmente strategico come le ferrovie, in realtà abbandonato a sé stesso; la stretta connessione tra interessi privati e ruolo di governo (conflitto d’interessi mai affrontato); la leggerezza nella capacità di affrontare la questione fiscale; l’acuirsi nella profondità delle divisioni territoriali proprio a causa dell’adozione del modello “capitalismo leggero” (sciur Brambilla e fabbrichetta); la subalternità al monetarismo UE; le larghe concessioni verso assistenzialismo e corporativismo; l’obsolescenza delle infrastrutture; i settori economici (e territori) inquinati dalla criminalità organizzata con relativi fenomeni di disgregazione, sfruttamento sociale, relativa precarizzazione del lavoro (precarizzazione assunta quasi a modello del nuovo sviluppo possibile).

Rammentato il quadro generale la fase sembra caratterizzata dalla presenza di un governo che si muove,come ha dimostrato affrontando il lockdown, border line sul piano del rispetto costituzionale delle istituzioni , sul terreno dell’assistenzialismo a pioggia nel tentativo di recupero dell’individualismo consumistico e nel pieno della confusione- ad esempio, ma soltanto per esempio – sia al riguardo della vicenda autostrade, sia di quella Alitalia. Il colmo per Autostrade lo segnala ancora l’articolo di De Vico “la nuova società Autostrade sarà quotata in Borsa ma, al contempo,obbligata a “non essere assoggettata alle logiche di mercato”. Frase piena espressione della filosofia di Conte e del M5S “tutto e il contrario di tutto, uno, nessuno, centomila, né di destra né di sinistra, non ci sono più le mezze stagioni”.

Quindi con una definizione riassuntiva abbiamo davanti un “capitalismo politico populista”, basato sullo scambio “politico – elettorale” .

Appare completamente dimenticato il concetto di programmazione democratica dell’economia, come sarebbe stato, invece, necessario praticare puntando sull’intreccio tra un ritorno ad una idea di “economia mista” e una necessità di stringente adeguamento ai termini imposti dall’innovazione scientifico/tecnologica avanzante in questo secondo ventennio del XXI secolo.

Lo “scambio politico” però arriva da lontano.

La storia dell’IRI, tante volte chiamata in ballo, può essere descritta in tre fasi: dal 1933 l’istituzione voluta dal fascismo (affidandone però le sorti a un manager socialista come Beneduce) per reazione alla grande crisi del ’29 e per salvare le banche nazionali; nell’immediato dopoguerra quando l’ente fu mantenuto in vita e non sciolto (com’era stato deciso anche per l’ENI e per il CONI,prima posti in liquidazione e poi ricostituiti) per realizzare le infrastrutture indispensabili per uscire dal disastro della guerra. Così l’IRI gestì autostrade, telecomunicazioni, mezzi di trasporto terrestri, aerei e navali, sistemi di difesa, materiali da costruzione (cemento, acciaio) e credito (banche).

Tutto questo avvenne in tempi di contrapposizione sociale molto forte con la polizia che sparava sugli operai e i contadini, il PCI all’opposizione ( ruolo certamente inadeguato sul piano della proposta alternativa) ma capace di far valere, in positivo, il suo peso di rappresentanza degli interessi nazionali della classe operaia oltre a costituire elemento di equilibrio all’interno della pesante logica dei blocchi in un Italia paese di frontiera e di passaggio (anche per il terrorismo e le trame più diverse).

Poi dagli anni’70 iniziò la fase dello “scambio politico”, attraverso l’acquisizione d’imprese private realizzate in funzione clientelare rispetto alla politica (non solo IRI, da ricordare sempre EFIM ed EGAM) in coincidenza con l’affermarsi di un sistema di potere bloccato (CAF), dell’evidenziarsi di un modello corruttivo molto esteso nel rapporto politica/amministrazione/imprenditoria, di un sostanziale consociativismo permeato da vistosi fenomeni di trasformismo e di caduta di credibilità di un sistema dei partiti rivelatosi però alla fine insostituibile, di un particolare ruolo sostitutivo interpretato dalla magistratura.

Il sistema dei partiti si è alla fine rivelato insostituibile nonostante il passaggio tumultuoso di un periodo di vera e propria furia iconoclasta che ha lasciato sul campo più morti e feriti di quanto si potesse immaginare in partenza, portando il sistema dalla personalizzazione populista di stampo berlusconiano fino alla democrazia recitativa (come scrive De Vico: “la povertà abolita per legge”).

Negli anni’80 le compensazioni delle perdite avvennero a spese dei contribuenti (ricordate i BOT a 3 mesi?) con la relativa esplosione del debito pubblico e lo smisurato allargarsi dell’evasione fiscale nel settore privato compensata dalla rapina del welfare, dall’impoverimento delle classi medie a reddito fisso, dalla crescita della disoccupazione e del lavoro nero, dalla fuga dei cervelli.

All’inizio degli anni’90, finiti i soldi dello Stato, dichiarati incostituzionali i prestiti, l’UE impose di trasformare l’IRI in s.p.a.

Il governo a quel punto si vantò di aver privatizzato.

Fin qui il Bignami, ma l’articolo di De Vico tocca punti di grande interesse al riguardo dei quali proprio oggi è necessario recuperare non soltanto una capacità riflessione ma anche di proposta e d’iniziativa politica.

La fase dello “scambio politico” infatti, si attuò in una condizione di totale assenza di un piano industriale per il Paese, mentre stavano verificandosi almeno quattro fenomeni concomitanti:

1) l’imporsi di uno squilibrio nel rapporto tra finanza ed economia verificatosi al di fuori di qualsiasi regola e sfuggendo a qualsiasi ipotesi di programmazione;

2) la perdita da parte dell’Italia dei settori nevralgici dal punto di vista della produzione industriale: siderurgia, chimica, elettromeccanica, elettronica. Quei settori dei quali a Genova si diceva, con orgoglio da parte degli operai e dei tecnici “ produciamo cose che l’indomani non si trovano al supermercato”;

3) a fianco della crescita esponenziale del debito pubblico si è verificato nel tempo il mancato aggancio dell’industria italiana ai processi più avanzati d’innovazione tecnologica. Anzi si sono persi settori nevralgici in quella dimensione dove pure, si pensi all’elettronica, ci si era collocati all’avanguardia. Determinante sotto quest’aspetto la defaillance progressiva dell’Università con la già ricordata conseguente “fuga dei cervelli” a livello strategico. Un fattore assolutamente decisivo per leggere correttamente la crisi questo della progressiva incapacità dell’Università italiana di fornire un contributo all’evoluzione tecnologica del Paese;

4) si segnalano ancora due elementi tra loro intrecciati: la già ricordata progressiva obsolescenza delle principali infrastrutture e un utilizzo del suolo avvenuto soltanto in funzione speculativa e in molti casi scambiando la deindustrializzazione con la speculazione edilizia , incidendo così moltissimo sulla fragilità strutturale del territorio.

Questo il quadro complessivo di un impoverimento generale, di una crescita delle disuguaglianze, di mancata inclusione dei giovani nel mercato del lavoro, di perdita di diritti, di compressione di ruolo dei corpi intermedi in particolare dei sindacati ma anche delle grandi organizzazioni datoriali in un quadro di declino complessivo delle possibili e necessarie espressioni di dialettica sociale.

Sarebbero stati questi, riassunti in una dimensione molto schematica, i punti che avrebbero dovuto essere affrontati all’interno di quell’idea di riprogrammazione e intervento pubblico in economia completamente abbandonata dai tempi della “Milano da Bere” fino ad oggi.

Idea di programmazione democratica che dovrebbe rappresentare l’alternativa al ritorno del “governo azienda” e al “capitalismo politico basato sullo scambio elettorale”.

Sarà soltanto misurandoci su di un’idea di progetto complessivo che si potrà tornare a parlare di programmazione e d’intervento e gestione pubblica dell’economia: obiettivo, però, che una sinistra rinnovata dovrebbe porre all’attenzione generale senza tema di apparire “controcorrente”. La stessa questione del “deficit spending”, salito vertiginosamente nella fase dell’assistenzialismo da lockdown, dovrebbe essere affrontata in questa dimensione ,così come il tema del “Recovery Fund” e del MES.

Mi spiego meglio sulla questione assistenzialismo. Il perseguimento di una logica assistenzialista, sulla quale pure si resse per un lungo periodo la centralità democristiana, è stato dovuto, sia ben chiaro, al duplice elemento che caratterizza la nostra economia: l’estrema leggerezza e la disuguaglianza territoriale.

Nel quadro di una resa ai meccanismi perversi di quella che è stata definita “globalizzazione” e dei processi dirompenti di finanziarizzazione dell’economia, “scambio politico” e assenza di una visione industriale hanno pesato in maniera esiziale sulle prospettive di crescita dell’Italia.

Oggi ci si sta muovendo ancora una volta in direzione ostinatamente contraria, recuperando il “peggio” degli anni passati:a partire dalla subordinazione delle scelte al clientelismo elettorale già arrivato, in occasione delle elezioni del 4 marzo 2018, a codificare su scala di massa il “voto di scambio” attraverso la promessa del reddito di cittadinanza,come pure era già avvenuto su scala numericamente più modesta negli anni scorsi: ricordando “meno tasse per Totti” , il solito “milione di posti di lavoro”, gli 80 euro.

Ciò affermato è necessario un progetto alternativo al “tachterismo” di ritorno e all’idea del recupero del “governo azienda” (che ormai richiama alla nostra memoria cose ben diverse dall’antica Assolombarda) : richiami ben insiti nel testo di De Vico.

Un articolo nel quale sembrano auspicarsi anche determinate soluzioni politiche pur esse di ritorno e che sembrano stare particolarmente a cuore ai maggiori organi di stampa.

Una situazione che la sinistra non ha saputo affrontare attraverso un’analisi compiuta: le divisioni politiche hanno sicuramente inciso sull’evidenziarsi di questa incapacità.

L’assenza di un forte soggetto politico di riferimento e di un sindacato in grado di leggere davvero la modernità ha impedito di reperire sedi adeguate nelle quali lo sviluppo d’analisi consentisse un’elaborazione direttamente politica.

Il tutto, come nell’occasione della formazione di questo governo, è sempre stato ridotto alla ricerca della “governabilità” al di fuori dalla possibilità di espressione di un progetto che, si ripete in conclusione, riprendesse l’idea di fondo della programmazione economica e dell’intervento pubblico in economia misurandosi anche con la realtà di un cambiamento nella dimensione di rapporto tra articolazione dei soggetti politici e frantumazione sociale, ormai da tempo verificatasi in verità, quasi sempre in chiave assistenzial/corporativa, personalistica, di mera riduzione allo scambio elettorale.

FRANCO ASTENGO

18 luglio 2020

Foto di martaposemuckel da Pixabay

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