In alternativa, la revisione del patto avrebbe potuto almeno servire a dare un po’ più di respiro agli stati membri, anche vincolando l’emissione di nuovo debito agli investimenti strategici (il cosiddetto “debito buono”) per scoraggiare la spesa improduttiva.

E invece per colpa dei Paesi cosiddetti “austeri” sotto la guida della Germania, questa occasione è persa. E i danni non li subiranno solo i paesi “latini”, Francia, Spagna, Italia – il cui governo è incredibilmente timido su questo dossier – ma in realtà anche Germania, Olanda e gli altri Paesi che si immolano sull’altare dell’austerità.

Ma che cos’è il Patto di Stabilità? Il Patto di Stabilità e Crescita è il sistema di regole che limita la spesa pubblica degli Stati dell’Unione europea. Il patto, sospeso a causa della pandemia, entrerà nuovamente in vigore il 1° gennaio 2024 se non sarà modificato entro allora.

Come molte altre regole europee, anche questo patto è plasmato su criteri di austerità e neoliberismo: non è un caso che lo si chiami solo “Patto di stabilità”, dimenticando quella crescita che pure dovrebbe essere al centro delle politiche fiscali dell’Unione e degli Stati membri. Inoltre, il Patto ha effetti pro-ciclici, ossia aggiunge austerità a un clima economico negativo, come già successo durante la crisi finanziaria del 2010, con gravissime conseguenze per i popoli europei.

Poiché molti Paesi non hanno ancora ripagato il debito contratto per contrastare gli effetti economici della pandemia, e per via della necessità di investire in modo massiccio per finanziare le transizioni energetica e digitale, lo scorso aprile la Commissione europea ha presentato una proposta di riforma del Patto. Anche le pressioni per aumentare la spesa militare da parte dei Paesi membri nel contesto della guerra tra Russia e Ucraina hanno avuto un ruolo.

Pur mantenendo l’impianto delle regole sancito dai Trattati, la proposta della Commissione mira ad abbandonare l’attuale approccio uniforme per tutti gli Stati membri a favore di uno che tenga conto delle specifiche circostanze nazionali.

Bruxelles intende proporre un “percorso di bilancio di riferimento” di quattro anni a ciascuno Stato membro che non rispetti uno dei criteri di Maastricht. Percorso che può essere esteso di altri tre anni se sono previste riforme strutturali o investimenti strategici per stimolare la crescita.

La Germania è stata ostile a questa riforma fin dall’inizio perché, secondo Berlino, l’individualizzazione dei percorsi minerebbe la “disciplina fiscale” e sarebbe il risultato di negoziati bilaterali tra lo Stato membro e la Commissione. Il ministro dell’economia tedesco Lindner già a fine aprile chiedeva “regole più vincolanti”.

Da allora, il testo legislativo è stato rivisto più volte in senso più restrittivo. I Paesi “latini” guidati dalla Francia hanno ceduto su molti fronti, accettando in particolare di reintrodurre le regole automatiche di riduzione del debito e del deficit. Ma la Germania ora vuole anche che un Paese sottoposto a procedura per deficit eccessivo non benefici di alcuna flessibilità, anche se investe nella difesa o nella transizione verde.

Insomma l’austerità come programma politico per l’Europa. Da qui lo stallo di ieri, coi francesi che non vogliono cedere anche su quest’ultimo punto. Del resto la Germania sa di avere il coltello dalla parte del manico: se non si raggiunge un accordo, tra un mese tornerà in vigore il vecchio patto pro-austerità e anti-investimenti da loro tanto amato.

Se invece un accordo si dovesse trovare, il nuovo patto potrebbe essere presentato al Parlamento prima delle elezioni previste per giugno ed entrare in vigore nel 2025. Nel frattempo, le regole esistenti verrebbero adeguate in previsione di quelle nuove.

Il compromesso, però, a questo punto non influirà minimamente sulla linea di fondo del Patto, quella dell’austerità, e probabilmente finirà per dare agli Stati un minimo di flessibilità per l’unica spesa che ora interessa a tutti, dalla Germania alla Francia all’Italia: la spesa militare.

STEFANO UNGARO

da il manifesto.it

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