Non andrà tutto bene, non sta andando per niente bene

Voglio bene all’Italia. Perché è il luogo della terra in cui sono nato, cresciuto, in cui ho imparato la lingua, gli usi e i costumi, la storia millenaria priva...

Voglio bene all’Italia. Perché è il luogo della terra in cui sono nato, cresciuto, in cui ho imparato la lingua, gli usi e i costumi, la storia millenaria priva di una struttura statale unitaria fino al 1861, la sua straordinaria bellezza artistica e paesaggistica, i suoi tremendi difetti antisociali, il suo facile trasformismo politico, la capacità del suo popolo di voltagabbaneggiare spesso e volentieri…

Voglio bene all’Italia, ma non posso provare questa empatia verso tutto il popolo italiano, di cui faccio parte. Perché non è umanamente possibile riuscire, in una comunità vasta, e così pure in dimensioni più ristrette come la propria città o la propria provincia, ritrovarsi in sintonia con i cosiddetti “sentimenti comuni” che di volta in volta si sviluppano.

So che vado controcorrente e che sarò accusato di essere “anti-patriottico“, ma non me ne importa nulla, perché non è la “patria” che mi interessa, ma il Paese, quello con la “pi” maiuscola, che conosce molto poco sé stesso ed ancora meno lo Stato e la Repubblica.

Vado controcorrente non con gioia e allegria, ma pensando che siano davvero patetiche tutte le manifestazioni tricoloreggianti di questi giorni, veri e propri esercizi di esorcismo collettivo che si tengono alle sei della sera dai balconi di molte abitazioni: ci si affaccia, si sventola una bandiera, si appendono lenzuola bianche con sopra scritto “Andrà tutto bene” e si fa rumore, si suonano violini, chitarre, si fa il dj-set persino. Ci si ritrova così, non potendosi incontrare per strada, perché è necessario, imprescindibile restare a casa. Senza se e senza ma.

L’unica simpatia che provo in queste forme di espressione patetica di un nazionalismo, frutto solo della paura e non di un vero amore per la nazione (quindi una adesione piena ai princìpi costituzionali… altrimenti il 50% degli italiani non voterebbe per forze sovraniste o populiste…), è per l’innocenza dei bambini che si affidano a questi messaggi spronando gli adulti a credere nella positività di una esistenza che è nella tormenta di un fenomeno mai accaduto prima nella storia recente di una Italia unita, o presuntamente tale.

Non andrà tutto bene. Non sta andando bene. In ogni programma televisivo si ripetono ossessivamente le medesime domande ai virologi. La più gettonata è proprio frutto dell’ansia che tutti ci pervade: “Quando arriveremo al picco“, dell’epidemia si intende. Ma siccome gli scienziati sono i primi a rifuggire esercizi di magia, sfere dove poter leggere il futuro ed esibizioni di premonizione con talismani o tarocchi, è del tutto evidente che non possano saperlo e che possano soltanto fare delle ipotesi con un margine di errore ancora troppo ampio per poter dare anche una pallida illusione che abbiamo oltrepassato almeno la metà del tunnel e che una luce, seppure lontana, si vede là in fondo.

La rabbia, la clausura forzata, la frustrazione che nasce e si alimenta col restringimento degli spazi di libertà costituzionali, sociali e civili che fino a poche settimane fa vivevamo senza preoccuparcene troppo, dando il tutto come diritti acquisiti per sempre, senza alcuna soluzione di continuità, è naturale che debbano trovare sfogo in una qualche forma espressiva. Meglio dunque che ci si affacci dai balconi e si suoni e si canti piuttosto che si forzi l’isolamento casalingo, peggio ancora la quarantena, per tornare a percepirsi come esseri sociali.

Oggi ci stiamo accorgendo che qualcosa ci manca e che qualcosa d’altro ci sopraffà, ci tiene in pungo: ci manca la partecipazione, quella che Gaber definiva come libertà delle libertà. Ci manca il poter esprimerci nella quotidianità della vita, anche in quei pochi contatti che avevamo e che ci facevano sentire collegati con il mondo intero, nonostante magari il nostro maggior tempo si svolgesse nel circostante, nel limitrofo delle nostre abitazioni.

Ci manca la libertà di essere, non quella per pensare. Ma è pur vero che senza l’essere sociale anche il pensiero ne viene limitato se è vero, come ci ricorda Marx, che noi siamo un misto di coscienza e di essenza sociale e che da questa seconda traiamo il nutrimento della nostra intimità emotiva, dei nostri sentimenti, dei nostri pensieri.

Quindi, la limitazione quasi totale del movimento, dell’incontro con i nostri simili, delle relazioni affettive con i nostri cari, ed anche la mancanza degli scontri, della dialettica, delle polemiche viso a viso, delle chiacchiere da bar, delle liti per la fila in posta o al supermercato dove ora si rimane diligentemente distanziati soltanto per la paura del Coronavirus, tutto questo ci condiziona pesantemente nel pensarci circondati da qualcosa che è materialmente infinitesimamente più piccolo della nostra massa corporea ma che è altrettanto incontrollabile, invisibile, ingestibile e di cui siamo tutte e tutti alla mercé.

La potenza del terremoto almeno, per quanto distruttiva possa essere e per quante vittime possa fare, la si vede, la si può maledire e si può piangere davanti all’inevitabile. Ma davanti al Coronavirus, così microscopico eppure così forte e destabilizzante, non si può piangere e maledire accorgendosi della sua presenza. L’impercettibilità è una delle sue forze: l’esserci sempre sentiti onnipotenti come specie su questa terra, dominatori assoluti di ogni ambito naturale, della natura stessa, ora si rivela per quello che è… una chimera, una illusione nemmeno bella e buona.

No, non andrà tutto bene. Non sta andando tutto bene. Se non si ferma tutto, se non si chiudono tutte le fabbriche, se per venti giorni non si blocca la produzione non essenziale e non si lasciano a casa tutte le lavoratrici e i lavoratori coperti dagli ammortizzatori sociali previsti dalle misure (assolutamente insufficienti) del governo, non andrà affatto tutto bene.

No, non andrà tutto bene. Non sta andando per niente tutto bene: le centinaia di morti che ogni giorno contiamo ci parlano di un comportamento sociale che elude le più elementari norme di contenimento del virus: sempre attingendo dall’egoismo di cui gran parte della popolazione soffriva prima dell’epidemia, qui lo si utilizza spavaldamente, pensando di poter fare pic-nic, feste all’aperto, partite di calcio notturne, ipotizzare feste di laurea e, in fondo, ritenersi immuni dalla possibilità del contagio. Nessuno, purtroppo, lo è.

Fosse non altro che per il rispetto di quei 4.000 morti e più che già contiamo dalla fine di febbraio ad oggi, dovremmo tutte e tutti anche cantare ma sapendo che è possibile farlo nel rispetto della salute pubblica, quindi evitando comportamenti egoistici, individuali, privi di qualunque buonsenso, di qualunque cautela verso sé stessi e verso gli altri.

Il miglior modo per ricordare tutti quei nostri concittadini morti in modo anonimo, senza parenti accanto, in una stanza di ospedale affollata dall’impegno strenue di medici e infermieri, salutati da lontano da un solo parente nel momento del trasporto funebre, è stare a casa e, così facendo, assumere su noi stessi una vera coscienza repubblicana, un senso comunitario dettato non solamente dalla paura ma dalla volontà precisa di giovare al Paese che è concetto ben più alto della patria esclusivamente nazionalista, fatta sempre e solo di confini, distinzioni e peculiarità escludenti.

Ma forse non andrà nemmeno tutto male se la nostra coscienza civile, civica, di cittadini responsabili che vigilano tanto sulla salute reciproca, adeguandosi alle restrizioni ad oggi imposte, quanto sulla democrazia che non può smarrirsi nel mare magnum dell’emergenzialità permanente, rimarrà bene attenta nel distinguere le fasi dell’epidemia: dall’inizio al picco, dal picco alla fine.

Non dobbiamo pensare che tutto questo possa diventare, anche solo minimamente, “normale“. Si tratta di uno stato di eccezionalità che deve cessare ma anche in questo momento, ad esempio, il Parlamento deve poter conservare la sua centralità, il suo ruolo di legislatore e controllare l’operato del governo. Se lo stato di eccezione finisce per giustificare tutto, si rischia davvero una epidemia peggiore di quella del Covid-19: si rischia l’estinzione degli anticorpi democratici e sociali per salvaguardare la Repubblica, la sua Costituzione.

Per questo non amo i cosiddetti “flash-mob” caciarosi dai balconi, l’appendere i tricolori e i tanti arcobaleni delle speranze e il sentirsi improvvisamente tutti uniti, italiani e cittadini rispettosi gli uni degli altri: non credo a questi cambiamenti repentini. Penso siano frutto solo ed esclusivamente della paura e che, passata questa, si rischi di tornare allo stato di odio e discriminazione istigato dai sovranisti fino a poche settimane fa: si tornerà ad accanirsi contro i migranti, contro i rom e i sinti, contro la famiglia formata con le unioni civili, contro i tossicodipendenti, contro i carcerati, contro i comunisti che per decenni hanno detto che le privatizzazioni erano un male e oggi rischiano di essere tacciati pure di profezie di sventura…

Non amo questa ipocrisia, questo affratellamento solo nel momento della disgrazia, perché se nasce soltanto da sentimenti negativi che tentano di essere meno ansiogeni facendo del “mal comune un mezzo gaudio” (si fa per dire…), allora non c’è nessuna crescita di coscienza individuale e sociale in queste manifestazioni di solidarietà e di condivisione delle sventure.

Ma se sarà stato così, lo sapremo soltanto quando l’epidemia sarà cessata e i nostri tanti egoismi potranno riemergere ancora più forti e pronti ad essere nuovamente sedotti dai profittatori dell’odio e del disprezzo delle minoranza. Quando il nemico invisibile, il piccolo patogeno che sconvolge il mondo, sarà sotto controllo, allora sapremo se avremo ancora bisogno, per vivere, di tornare a vedere nel più debole rispetto a noi il nuovo nemico su cui scaricare tutte le nostre frustrazioni sociali e antisociali.

MARCO SFERINI

21 marzo 2020

Foto di 【微博/微信】愚木混株 【Instagram】cdd20 da Pixabay 

categorie
Marco Sferini

altri articoli