L’infinito principio dell’esistente: un giallo che non ha fine

Vertiginosamente inimmaginabile, accarezzabile solo con una estensione orizzontale di un piano geometrico che si presume non finisca mai. Come qualcosa che è il contrario della forma, del confine, del...

Vertiginosamente inimmaginabile, accarezzabile solo con una estensione orizzontale di un piano geometrico che si presume non finisca mai. Come qualcosa che è il contrario della forma, del confine, del perimetrato.

L’infinito è imprendibile, inarrivabile e, per quanto si pensi ad un numero grande, di galassie, di pianeti, di materia che si forma e si disfa, di espansione nello e dello spazio (non si sa bene dove e perché), l’infinito rimane il più affascinante e irrisolvibile enigma che abita l’esistente e che si riproduce nelle nostre autocoscienze.

Per questo, come diceva Stephen Hawking, noi siamo degli esseri molto speciali e particolari. Siamo la parte più complessa della materia che, evolvendosi in determinate contingenze, seguendo le leggi che determinano lo sviluppo di ogni cosa nell’Universo, è giunta ad un grado di coscienza tale da essere consapevole della propria esistenza, di quella di ciò che ci circonda e, su tutto questo, quindi, possiamo formulare pensieri, concetti, domande, ipotesi, analisi e tesi.

Anche, e forse soprattutto, su ciò che, dopo migliaia di anni di interrogativi, sappiamo essere l’emblema iconico dell’inconoscibilità: l’esistente che circonda il nostro piccolo pianeta.

Principio delle cose che sono è l’infinito. Donde le cose hanno nascimento, ivi si dissolvono secondo necessità. Pagano, infatti, la pena, e scontano reciprocamente la colpa commessa, secondo l’ordine del tempo“. Anassimandro fonde così il suo pensiero successivo sull’infitudine del tutto e lascia intendere, come prova di una sorta di discendenza dalla precedente idea taletiana proprio sul “principio“, ossia sull’ἀρχή (“arché“), che unità e molteplicità possono essere assimilate o, se vogliamo, messe a confronto e simbiotizzate senza che ne derivi per forza una antitesi tutt’altro che dialettica.

Leopardi si esprime sull’infinito dall’alto dell'”ermo colle“; non si sa quanto piacevolmente e quanto angosciosamente.

Troppo facile, conoscendo il pessimismo del grande recanatese, optare soltanto per una declinazione negativa anche per quanto riguarda quell’oltre che va al di là dello sguardo stesso, l’immensità che diventa inconcepibile punto interrogativo, tanto grande da opprimere da un lato la ristrettezza mentale umana, tanto affascinante dall’altro da essere un uscio aperto sulla possibilità dell’esistenza di un dio, di un principio creatore.

Il principio e l’infinito. Rieccoli insieme. Ma dobbiamo stare molto attenti a non pensare ai presocratici mediante le categorie, ad esempio, della filosofia cristiana, scostandoci anche dall’influenza aristotelica, perché cadremmo nell’inganno di fare del “principio” non l’essenza dell’esistente, ma un punto temporale messo lì per discernere il prima e dopo di una “creazione” che per i greci era inconcepibile.

Ce lo dice molto bene Eraclito, quando afferma che quello che noi rappresentiamo come “ordine del mondo“, uguale per tutti, quindi oggettivo, è sempre stato.

Per l’appunto, se noi cadessimo in un grossolano errore, in una illusioria prospettiva partendo dall’assunto per cui deve esistere un inizio (è bene definirlo così per distinguerlo dal “principio” anassimandreo), mentre è molto più probabile che nulla sia mai iniziato, ma tutto sia sempre stato? Ovviamente qui ci si riferisce all’oscurita universale, al primordio dei primordi, all’inconoscibile per eccellenza.

E non solo perché i telescopi non arriveranno mai a miliardi e miliardi di anni luce dalla nostra galassia, ma perché l’Universo è il mistero par excellence, ed è forse anche per questo che ci rimane un timido dubbio sul significato della nostra vita.

Ma, se la discussione sull’infinito è, per l’appunto, a sua volta infinita, e sappiamo bene che non arriveremo mai ad una conclusione, resta quel piglio di fascino del misterioso che è un giallo senza soluzione. A cui però si deve per forza provare a dare una spiegazione.

Perché mettere la parola “fine” al dibattito sarebbe, in fondo, trovare il significato dell’esistenza (e quindi dell’esistente) e, relegati nel nostro microcosmo terrestre, perderemmo quell’anelito alla ricerca costante che, avvolta da un impenetrabile foschia morfeica, se riflettiamo un attimo criticamente è alla base della spinta propulsiva all’accrescimento della conoscenza.

Ma conoscere non è sufficiente. Bisogna dare una concretezza dimostrativa a tutto quello che si apprende, non fosse altro per confermare che il livello di acquisizione delle nozioni, catalogate secondo principi matematici, algebrici, geometrici, nonché filosofici.

Bisogna quindi scintificizzare ciò che si apprende: l’ordine del disordine che ci appare nell’Universo, infinito nell’essere principio di ogni cosa di cui, per ora, siamo al corrente, risiede tanto nell’enormità dell’estensione inimmaginabile con la mente umana, quanto nella più piccola, indivisibile porzione di materia. Si tratta, qui, di riprendere quella conoscenza democritea delle cose che era incontro tra sensibilità.

L’intuizione che il pensatore di Abdera ebbe riguardo agli atomi come essenza infinitesimale e inalterabile della materia, ultimo confine presso cui era rintracciabile un materialismo arcaico insieme ad un meccanicismo altrettanto tale, molto differenti dagli sviluppi che ebbero nel corso dei secoli, eppure già così moderni per la loro epoca, è davvero una pietra miliare nella formazione di un primo approccio para-scientifico nei confronti dell’esistente.

Il contatto con il mondo, che Democrito definisce attraverso l’avvicinamento tra gli atomi superficiali delle cose che danno la loro “impressione” ai nostri organi sensoriali, è, seppure ancora ad uno stato abbastanza grezzo, una esperienza conoscitiva pratica, un toccare con mano le cose per capirne la natura. In senso lato e in senso stretto del termine. La verità, così, diventa un punto dell’infinito (del principio architipico stesso che Anassimandro vi vede) a cui rivolgersi e tendere sempre.

La sublimazione della voglia di conoscere qui trova davvero un terreno fertile di continua elaborazione concettuale ma tutt’altro che fine a sé stessa, come spesso avviene se si studia la storia del pensiero filosofico, quanto meno occidentale. Perché il desiderio fa parte della comprensione umana e capire vuol dire indagare, vuol dire separare ciò che è inseparabile per penetrare fin dentro l’invisibile ad occhio nudo.

Prima dell’osservazione al microscopio dei batteri, lo stesso concetto di “contagio” era molto diverso da quello che intendiamo noi oggi. E, di conseguenza, la trasmissibilità delle malattie, dalla peste al colera, dal tifo alla lebbra era una consapevolezza affidata quasi esclusivamente ad una conoscenza superficiale. La causa rimaneva oscura, l’effetto era certo.

Per quanto potesse essere incredibile che qualcosa passasse da un corpo ad un altro senza un diretto contatto, come un raffreddore, ciò avveniva ed avviene tutt’oggi. Diverso il discorso che riguardava un appestato o un lebbroso. Lo stigma che ne seguì fu la conseguenza diretta della prova che il contatto era fonte abbastanza certa di contagio.

Lo stesso rapporto tra causa ed effetto lo si ritrova nello studio dell’Universo quando si prendono in considerazione le influenze che stelle, pianeti e satelliti di questi hanno gli uni sugli altri. Le leggi che regolano il tutto, a cui noi umani abbiamo dato un nome, come ad esempio la “gravità“, esistono a prescindere dalla nostra osservazione. Ma grazie a questa possiamo, noi e solo noi, avere una maggiore conoscenza del rapporto della materia con sé stessa.

L’indagine sulla totalità (si fa per dire…) dei fenomeni che abitano nell’universo a noi conosciuto (e ancora molto inconoscibile, si pensi alla questione inerente la famosa “materia oscura“…) si eleva rispetto all’interpretazione metafisica, agli assunti religiosi di un creazionismo che ostacolerà il progresso scientifico, direttamente o indirettamente, ponendo a motore mobile dell’esistente la volontà divina.

Una volontà che sarà puntualmente rivisitata di invenzione in invenzione, seguendo uno schema apparentemente logico, fin dentro la verità biblica del Vecchio Testamento, visto che i Vangeli riguardano molto di più la comportamentalità umana in terra pur secondo precetti che discendono da princìpi teleologici. Una mistificazione del reale che, nonostante tutto, riuscirà fino ad un certo punto.

Lo studio scientifico, unitamente alla critica dialettica che gli è propria, squarcerà il velo di ipocrisie e rimetterà in moto un dibattito sull’infinito e sul principio primo di tutto le cose che, non per forza, seguirà gli schemi monistici antichi. La pluralità, alla fine, gareggerà con interesse rispetto alla tesi dell’unicità imprescindibile nell’atto della creazione.

L’evoluzionismo consentirà, per l’appunto, di affidare alla complessità dell’Universo, disomogenea ma armonica, con tutte le sue leggi non scritte ma insite nella natura delle cose (Democrito parlerebbe proprio di atomi), il livello superiore di approccio alla conoscibilità dell’esistente.

Il materialismo e il meccanicismo di nuovo modello, riprendendo l’indagine speculativa del passato, faranno un salto davvero enorme nel legarsi alla oggettività scientifica e, quindi, si separeranno dalla mera intuizione filosofica, dalla sterile disputa per diventare qualcosa di differente. Una differenza quantitativa e qualitativa al tempo stesso. Qualcosa che prescinde persino dagli atomi democritei.

Quando parliamo di infinito e di principio dell’essere, non possiamo non fare riferimento, al pari di Parmenide, all’eternità. Il tempo, la quarta dimensione per noi, l’ingenerazione per i filosofi ellenici. Il passato è ciò che non esiste più solo se ci riferiamo ad una stabilità del tutto: il cambiamento sta nel tempo e il tempo sta nel mutamento delle cose. Noi vediamo i monumenti deperire e trasformarsi durante i millenni. Ma non vediamo materialmente i millenni passare.

Noi abbiamo, echianamente, solo il nome del tempo che passa. Non possiamo afferrare nemmeno la rosa appassita che diventa altro da sé stessa. Come ogni cosa. Ed allora, ogni discussione sul principio primo di ogni realtà esistente può riemergere, di tanto in tanto, perché rimanda al pensiero su un Universo che è instabile tanto nella grandezza quanto nella piccolezza.

Che è lotta della materia con sé stessa e che, quindi, proprio perché queste sono le dinamiche (le leggi) che lo uniformano (o che lo governano…), appare come un una unità molteplice.

La più bella e straordinaria sintesi che si possa dare dell’inconoscibilità dell’infinito risiede proprio nel contenimento delle contraddizioni che noi asseriamo siano tali. Non ci dobbiamo mai scordare che tutto ciò che noi osserviamo e proviamo a capire, lo facciamo attraverso la specificità della nostra mente che è un filtro parziale, forse una conoscenza metodica che porta ad una verifica oggettiva dei fatti, ma che potrebbe essere, per quanta sicurezza noi possiamo avere, fallace.

I sensi ci ingannano, ma se una palla cade per terra una, due, tre volte, la ripetitività di quel fenomeno ci dà la certezza che si ripeterà ancora. A meno che le leggi dell’Universo non cambino e, quindi, non cambi l’infinito, non cambi il principio stesso delle cose.

Se cerchiamo delle certezze, possiamo averle soltanto nel nostro microcosmo terrestre, al di sotto della nostra atmosfera, fin dentro l’ancestralità delle capacità innate che abbiamo e che ereditiamo con il DNA dei nostri genitori e della nostra specie. Ma, al di fuori di questo piccolo confine umano e disumano, non c’è altro che possiamo attribuire alla logica, al significato comprensibile e alla comprensione dello stesso.

Viviamo dentro un grande mistero. E, probabilmente, basta questo a stimolare perennemente il dubbio, a scatenare le passioni, le pulsioni e ogni altra forma di tensione evolutiva della mente verso l’impossibile verità iperuranica.

Noi non ci accorgiamo di tante cose e tante altre, pur vivendole, non le vediamo. Il vento, ad esempio. Ma, anche se non le vediamo, non è detto che non ci siano. E se ci sono, comunque, sono, in ultima istanza, poste dentro l’Universo infinito e principio dell’essenza, inconoscibili. Gorgia torna e ritorna fra noi.

L’associazione tra ciò che c’è e ciò che noi diciamo esserci è una convenzione tutta umana. Così come i nomi che abbiamo dato ad ogni fenomeno. Noi abbiamo umanizzato tutto e antropizzato il pianeta. Abbiamo esagerato, perché ci siamo messi al centro di tutto. Possiamo recuperare solo se la nostra intelligenza sarà messa al servizio della sostenibilità di un mondo che non ci appartiene.

E’ dell’Arché. E’ del mistero. E’ del non-senso. E noi, che cerchiamo sempre questo senso, possiamo dire che il mondo sia nostro? Quando lo facciamo, combiniamo solo disastri. Non è una affermazione scientifica. Si può capovolgere. Ma questa è ancora un’altra questione… Forse molto più dirimente delle domande sull’infinito e sul principio.

MARCO SFERINI

31 dicembre 2023

foto: elaborazione propria

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Il portico delle idee

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