È come uno stereogramma: quell’immagine che lascia comparire da uno sfondo bidimensionale un oggetto in 3D, se la si guarda a lungo.

Tutti questi maschi goffi e machi che contornano la premier, che sbagliano per imperizia o perché si fanno scoprire, che nascondono sotto il tappeto busti aviti e case prestate, tutte queste grisaglie senza cultura alcuna, senza meriti né capacità, aiutano, chi resti a contemplare l’ingrato insieme a lungo, a far emergere la vera identità della premier, quella che lei tiene a bada sotto i completi Armani, «Il presidente è donna e Giorgia veste Armani» titolava Il Giornale il 15 novembre 2022, togliendole da subito il cognome, come in Italia si fa con le donne, maschilizzandole la rappresentanza.

Chi fosse lo rivelò subito, quando nel 2014, incalzata da chi le chiedeva come sarebbe stato possibile bloccare gli sbarchi di migranti «li fai affogare tutti?» rispose: «Sì, esattamente».

Però questo serviva prima, per essere eletta, ora serve essere l’unica possibile, l’unica presentabile, lì in mezzo, e i toni si sono placati, le parole si sono fatte accorte.

Certo le è sfuggito, quando ha detto chiamatemi «il» premier, ma poi è rientrata con una foto accudente su volo di stato; ogni tanto le sfugge ancora, quando urla da Atreju come se stesse ad arringare bivacchi di manipoli (la prossemica, gli occhi sgranati, son quelli lì), ma poi ci prova a rientrare nell’immagine della prima donna premier della Repubblica.

Solo che noi siamo ciò che siamo anche in rapporto al contesto, e sempre più spesso è lo sfondo che arretra lasciandola in 3D, come l’altro ieri, quando Mennuni ha detto che la missione più bella per una diciottenne è far figli, o come ieri, con la prima pagina di Libero: «L’uomo dell’anno».

Nel saggio di Luisa Passerini Mussolini immaginario (1986, Laterza) c’è la spiegazione di come la dittatura fascista si sia basata sul sessismo (il nemico che Hannah Arendt indicava come necessario a qualunque totalitarismo, ebrei, rom, omosessuali, in Italia ce l’avevamo in casa: erano le donne), e c’è anche il passaggio della reversibilità del dittatore da «uomo maschio» a «mamma d’Italia», di cui la copertina di Libero di ieri è lo specchio perfetto: da donna premier a uomo dell’anno. È fatta, la metamorfosi è compiuta, l’immagine è sbalzata e resta lì.

Ovviamente lei ora, con la stessa nonchalance comunicativa che ha dimostrato quando ha gettato i panni del suo compagno dalla finestra di Twitter, ugualmente potrebbe rispondere al direttore di Libero Sechi che «uomo glielo dici a tuo fratello», se fosse in disaccordo, se non se ne sentisse gratificata, come forse invece probabilmente è, perché qui le cose vanno così: che se una donna va gratificata diventa uomo. Il riconoscimento è diventare uomo.

Alle donne che le si oppongono tocca ancora una volta un compito paradossale, quello di suggerirle di difendersi proprio dove lei non ci difenderebbe mai, come quel giorno in cui accettò l’incarico di premierato tra gli sguardi maschilisti e canzonatori di Salvini e Berlusconi. Per stare qui in mezzo, ti becchi l’apparato che ti consente di stare qui in mezzo, devi accettarlo tutto, diventarne connivente, esserne parte attiva.

Solo allora il corpo patriarcale non ti rigetta come un organo irriconoscibile, sei la parte presentabile di quello sfondo: eccoti. Ci tocca di farle notare che sta sacrificando l’identità sull’altare del potere. Che tristezza, però noi riusciamo ancora a dividere la questione: a riconoscere l’abuso sessista sulla donna a sua volta abusante. In fondo la differenza tra noi e loro è anche qua.

VALERIA PARRELLA

da il manifesto.it

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