L’impossibile ambientalismo capitalista del G20

A tarda notte fa ancora un caldo soffocante. In televisione scorrono le immagini di Napoli e le risposte del ministro Cingolani ai giornalisti hanno un tono perentoriamente rassicurante: il...

A tarda notte fa ancora un caldo soffocante. In televisione scorrono le immagini di Napoli e le risposte del ministro Cingolani ai giornalisti hanno un tono perentoriamente rassicurante: il G20 climatico, riunitosi in quel di Napoli, ha praticamente trovato una quadra sul 95% delle proposte messe in campo per invertire la rotta globale sul clima altrettanto globale e sugli sconvolgimenti naturali che ne derivano. Sono proprio questi fenomeni ad essere ciò che rimane a a Gaia per far capire ai sapiens che indietro si rischia di non ritornare e che ormai il tempo stringe, si assottiglia sempre più il margine di recupero e la discesa sul crinale della rovina completa è a portata di sguardo.

Lo sguardo nostro ma, più ancora, quello delle giovanissime generazioni, dei “millenials“, che nel corso della loro vita assisteranno, lungo il primo secolo 2000, ad altre trasformazioni climatiche veramente importanti se gli accordi di Parigi non dovessero essere rispettati alla lettera (per quanto siano insufficienti come rimedio, sono comunque un patto non disconosciuto – al momento – da nessuno Stato).

Pur senza mitigate il caldo afoso che non accenna a diminuire, a tarda notte le parole di Cingolani farebbero pure ben sperare, se non si fosse così in cattiva fede da credere che alla fine i Grandi 20 l’accordo continuino a volerlo trovare su tutto tranne sui due punti dirimenti su cui dovrebbero essere invece primariamente concordi. Perché senza il dimezzamento delle emissioni nell’atmosfera entro soli otto anni (cioè entro il 2030) e senza l’abbandono del carbone come fossile da utilizzare per la produzione di energia, ogni altra stretta di mano e firma messa su ampollosi documenti ufficiali, significherà solo trovarsi innanzi ad una mera formalità.

Le classificazioni tra “paesi virtuosi” (Stati Uniti, Canada, Germania, Francia, Italia e altri Stati dell’UE) e paesi invece “riottosi” (India, Cina, Russia, Brasile, tra gli altri) nei confronti della decarbonizzazione non ha molto senso se non per capire quali interessi vi sono realmente in campo e quale parte del mondo intende dirigere i piani economici (e quindi climatici) dell’altra parte. Intanto la temperatura terrestre aumenta e rischia di andare ben oltre quegli 1,5 centigradi entro i quali dovrebbe rimanere per permettere di rientrare degli tanti sforamenti in termini di salvaguardia dell’ambiente.

Le grandi industrie del carbone, soprattutto in India, esercitano da tempo pressioni sul governo per evitare di essere tagliate fuori dalla grande fetta di mercato che oggi, a scapito dell’ecosistema, mostra tutti i suoi limiti evidenti: già da un decennio abbondante le miniere di carbone sono entrate in crisi nel grande paese asiatico. Tra il 2017 e il 2020 ne sono state chiuse a decine. Le condizioni di lavoro le si possono immaginare: alla grama vita del minatore aggiungete salari da fame e regimi orari che nessun contratto sindacalizzato consentirebbe, ed avrete il quadro chiaro di uno sfruttamento disumano associato ad una potenziale produzione inquinante devastante per il pianeta.

L’intenzione di riconvertire tutto questo comparto produttivo in una industria del “carbone pulito“, scimmiottando l’esempio fallimentare della Cina, non è piaciuto alle potenze occidentali: non solo per una questione di concorrenzialità internazionale, ma soprattutto per il freno che ciò metterebbe ai tanti (costosissimi) sforzi (si fa per dire) che i governi e le economie nazionali stanno facendo per quella “transizione ecologica” così sbandierata ed ancora ben al di là da venire.

Quando si tratta di numeri, di cifre, vale tanto una porzione di mercato quanto una nuova prospettiva del medesimo fondata ipocritamente sul recupero ambientale nel nome della contraddizione massima per la natura tutta: il capitalismo.

Ma la Cina resta l’ostacolo più alto da saltare, se si vuole parlare di rispetto degli accordi di Parigi sul clima e, conseguentemente, di accordi alle prossime riunioni del G20 su ambiente e sostenibilità. Le due questioni dirimenti, decarbonizzazione e riduzione (conseguente) delle emissioni nell’atmosfera, verranno rinviate ai capi di Stato.

Il fallimento del G20 al riguardo, nonostante l’ottimismo di facciata del ministro Cingolani, è chiaro che pone l’esigenza di un supplemento di discussione interna, tra governi e imprenditori, tra poteri politici e poteri economici, per cercare una soluzione, non soltanto meno indolore possibile per i profitti dei grandi inquinatori del pianeta, ma per trovare la condivisione di un piano globale veramente unitario e applicabile senza scorrettezze e sgambetti di uno Stato contro un altro, facendo dello spionaggio anticlimatico.

Sarebbe una tragedia nella tragedia, ma non è affatto escluso che la farsa prenda il posto della prima se tutta la moderna Via della Seta dovesse ancora essere segnata dallo sviluppo carbonifero piuttosto che da un suo progressivo ridimensionamento. Non dalla sola Cina passa il destino del pianeta, ma si può affermare che senza un accordo con Pechino, ciò che è stato siglato tempo fa a Parigi diventa lettera morta.

Le estati sono sempre più calde e umide, mentre in autunno si registrano condizioni da pieno inverno: le stagioni sono ridotte a due, lunghe, costellate di disastri naturali che malediciamo e per i quali noi stessi facciamo molto poco per limitarne i danni. La cultura della preservazione della casa comune, di Gaia, è affidata a quei venerdì verdi del futuro, alle centinaia di migliaia di giovani che, con una spontaneità forse un po’ modaiola ma sinceramente genuina, hanno invaso le piazze di ogni continente per lanciare un allarme cui gli interessi capitalistici e quelli della ossequiosa politica di governo sono fondamentalmente sordi.

Il compromesso esasperato, cui devono ricorrere i preservatori dei privilegi di pochi grandi ricchi per mantenerli tali, è al rialzo continuo. Prima o poi, però non resterà nemmeno una zona della Terra su cui spendere così enormi capitali. Se la temperatura del globo salirà ancora, arrivando a 3°, nessuno sarà al sicuro e nulla potrà fermare nuove pandemie, nuove devastazioni di animali umani e non umani, di foreste, mari e dell’aria che ancora riusciamo a respirare.

Il fallimento del G20 sul clima mostra tutta l’insufficienza di un sistema che non può autoriformarsi ma deve essere superato se davvero si vuole vincere la sfida che l’uomo ha posto a sé stesso sul clima, sull’esistenza propria e dell’intero ecosistema. Ancora una volta, valgono le parole di Chico Mendes: «L’ambientalismo senza anticapitalismo, è solo giardinaggio».

MARCO SFERINI

24 luglio 2021

Foto di Here and now, unfortunately, ends my journey on Pixabay da Pixabay

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