Legge, morale e coscienza nell’Italia del crudelismo

Nel film “Sophie Scholl – La rosa bianca“, durante l’interrogatorio della giovane da parte dell’investigatore Robert Mohr della Gestapo, si fa cenno a tre concetti che si riflettono in...
La nave "Sea Watch" alla ricerca di un porto...

Nel film “Sophie Scholl – La rosa bianca“, durante l’interrogatorio della giovane da parte dell’investigatore Robert Mohr della Gestapo, si fa cenno a tre concetti che si riflettono in altrettanti comportamenti umani: la legge, la morale, la coscienza.

La legge che oggi lei cita, un tempo, prima dell’avvento dei nazisti al potere, difendeva il diritto di parola, di pensiero“, dice Sophie, a significare che la legge, come tutti dovremmo ben sapere, non è qualcosa di immutabile ma anzi cambia proprio sulla base della morale e la morale, se si può inserire un po’ di marxismo in tutto ciò, è l’espressione del pensiero dominante in un determinato contesto economico-sociale.

La legge, dunque, non è altro se non un insieme di norme che derivano da un comune sentire, da un bisogno di tutele, di difese del pubblico interesse. Almeno così, in astratto, dovrebbe essere. Sappiamo che tra concretizzazione e astrazione di princìpi esiste una ampia differenza, un largo margine, una divaricazione che spesso si fa tanto grande quanto grandi, proprio “moralmente”, sono i dettami che vengono enunciati e presi in considerazione.

A cosa dovrei attenermi?“, urla allora Mohr alla giovane Sophie. “Alla coscienza“, risponde lei con un piglio che lega pragmatismo a misticismo.

Proprio la coscienza è a fondamento della morale e può condizionarla facendola deviare, attraverso lotte e resistenze, dal pensiero unico di chi comanda, di chi regge una società tenendola per le briglie dello sfruttamento della mano d’opera e degli intelletti.

Nel febbraio del 1943, quando gli effetti della rovinosa battaglia di Stalingrado cominciavano a farsi sentire tra le fila della Wehrmacht e gli alti papaveri del regime di Hitler iniziavano a tremare, la pressione terrorista dello Stato nazista divenne sempre dilagante: potente espressione di una disperazione che durerà fino agli inizi del maggio del 1945 in perfetta sintonia con la preferenza del combattimento “fino all’ultimo uomo” piuttosto che “fino all’ultima pallottola”.

La morale di allora, nella Germania di Hitler, era qualcosa di inedito, di mai visto prima e che rendeva legittimo solo ciò che rientrava pienamente negli interessi dell'”amato popolo tedesco”. Così si esprimevano Goebbels, Himmler e lo stesso caporale austriaco naturalizzato tedesco.

La morale era anche frutto di un sistema economico, ma in un regime come quello nazista, che aveva – al pari di quello fascista italiano – in odio le plutocrazie e tutto quanto concernesse il languido sistema borghese (e democratico), come e cosa pensare erano demandati ufficialmente soltanto alla propaganda di Stato, al regime stesso e, obbedendo ciecamente al “Führerprinzip” (il “Principio del Führer”), ad un partito che esisteva in quanto esisteva Hitler.

Dunque, la coscienza di menti libere come quelle dei giovani della Rosa bianca era immorale e, per conseguenza, illegale.

Oggi, la coscienza di una umanità che scivola sempre più verso un crudelismo che si fa potere e che trasforma la morale comune facendola allontanare dai fondamentali della Costituzione repubblicana, diventa merce preziosa per chi ha compreso di avere un mordente, di saper interpretare le ataviche e nuove paure di milioni di cittadini disperati, proprio come i tedeschi del dopoguerra nel periodo di Weimar.

Per questo è importante recuperare una coscienza collettiva che veda un ritorno ai valori di solidarietà, uguaglianza sociale e civile e libertà cui il Paese si era abituato nel corso di una storia ormai settantennale, dopo un’altra guerra, dopo immani tragedie, dopo aver sperimentato cosa volesse dire cercare “l’uomo solo al comando” e l’affidarsi mani e piedi, cuore e ragione ad un regime che facesse della “sicurezza” il caposaldo della sua logica di governo.

I sindaci “ribelli” che in questi giorni hanno disapprovato l’applicazione di determinate norme del “decreto sicurezza”, per la prima volta dopo il voto dello scorso marzo hanno rianimato una cultura prima ancora che una speranza: quella che pareva caduta nel sonno della ragione, nell’impotenza di una opposizione fatta da una non credibile forza che si richiama alla sinistra e che ha fatto di tutto per distruggere proprio i presupposti della sinistra stessa, i valori costituzionali prima citati e che ha schiacciato i diritti sociali dei più deboli.

Per la prima volta dopo mesi e mesi di tracotanza unilaterale, di smarrimento delle voci critiche, di percezione di una univocità di pensiero e di trasmissione della comunicazione dal solo fronte governativo, differenti sensibilità politiche si sono unite e hanno fatto fronte comune, probabilmente senza essersi coordinati.

Accade così quando un avversario diventa tanto pericoloso da far correre ai ripari: dalla Presidenza della Repubblica, nel discorso di fine anno, sono giunte critiche riconoscibili all’operato del governo e segnatamente di alcuni ministri più esposti mediaticamente.

Il riferimento alla comunità e ad una società che scansi l’odio, che provi a vivere secondo valori che possono unire i più differenti tra loro sul piano per l’appunto civico, morale e, pertanto, anche sociale, è stato prezioso per offrire al Paese una speranza in merito: non che si arrivi al socialismo. Chi critica le parole del Capo dello Stato facendo finta di non conoscerne i poteri (e i limiti che quei poteri hanno secondo la Carta fondamentale), lo fa solamente per ridimensionarne gli interventi, le limature che sono venute, e sono tante (dai giuristi del Quirinale) proprio in materia di sicurezza e, segnatamente, del “decreto sicurezza”.

Se non spetta dunque al Presidente della Repubblica dichiarare l’incostituzionalità di una legge, spetta ai sindaci della Repubblica di rappresentare la medesima sui loro territori seguendo una coscienza che si ispiri alla morale costituzionale e applicando le leggi attraverso una interpretazione conseguente.

Le leggi non sono dei monoliti da accettare tout court, ma verso esse si può ricorrere a diversi livelli di giudizio. Per leggi come il “decreto Salvini” esiste la Corte Costituzionale: tutti gli interventi occorsi per farlo ammettere quanto meno nell’alveo delle “probabilità di incostituzionalità” (salvandolo dalla “certezza di…”), ci dicono che siamo non davanti ad una differente interpretazione del testo del 1948 che regola la vita del Paese e del suo popolo; siamo davanti ad una visione antitetica rispetto alla Costituzione, ad iniziare dai “Princìpi fondamentali” che dichiarano la Repubblica “democratica” (articolo 1), garante dei diritti inviolabili dell’uomo (articolo 2) e le attribuiscono il ruolo di promotrice (articolo 3) della pari dignità sociale davanti alla “Legge”, quella con la elle maiuscola.

Alcuni affermeranno che la sinistra non riparte se non da lotte che la rimettano al centro delle questioni sociali e viceversa: indubbiamente siamo costretti al “trascinamento” su questioni e tematiche che sembrano lontane dalla necessità primaria, quella senza la quale non possono esistere le altre: il diritto alla propria esistenza tramite il lavoro.

Ma l’esistenza non è solo lavoro: interpretare la lotta di classe come espressione unicamente tale, priva di riferimenti umani, alienando l’umano dal sociale, è fare torto proprio alla lotta di classe stessa, al comunismo come movimento degli sfruttati, alla sinistra come parte ampia della società che può e deve riorganizzarsi tenendo conto di tutti i diritti.

La lotta per i diritti dei richiedenti asilo che il “decreto sicurezza” esclude dalla registrazione in anagrafe, precludendo ad esseri umani come noi diritti fondamentali per la vita, per l’esistenza, è lotta di classe. Anzi, è anche lotta internazionalista perché non considera i diritti su base “nazionale”: non c’è primato in tal senso che tenga.

I diritti sono universali o non sono.

E’ dunque coscienzioso, morale e costituzionale stare dalla parte dei sindaci “ribelli”. Chi li definisce “traditori”, oltre ad usare un linguaggio non consono per un ministro ma piuttosto per un tiranno, non fa rafforzare la convinzione che dalla parte del torto, quello vero, non siamo certamente noi che vogliamo rimanere umani e che nei porti di Palermo e di Napoli vediamo una speranza per l’intero Paese e per la “Sea Watch” che ancora è in balia delle onde…

MARCO SFERINI

4 gennaio 2019

foto: screenshot

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