La vittoria del manicheismo all'”Eurovision Song Contest”

Per principio non scommetto mai. Né praticamente né idealmente. Credo, a memoria, di non aver mai giocato al Lotto in vita mia. Forse ho fatto qualche schedina del Totocalcio...

Per principio non scommetto mai. Né praticamente né idealmente. Credo, a memoria, di non aver mai giocato al Lotto in vita mia. Forse ho fatto qualche schedina del Totocalcio quando tifavo per il Parma, ormai nel lontano 1998… E, se dovessi dire, non so nemmeno più perché avessi scelto quella squadra. Probabile che mi piacesse qualche calciatore, oppure che l’abbia vista centrare alcuni gol meglio di altre.

Le uniche scommesse che facevo, le facevo da ragazzo, quando con gli amici si puntavano caramelle, dolci e giocattoli personali per vincerne altri, per scambiarli senza doverli veramente scambiare, per fare finta di aver ottenuto una vittoria grazie alla potenza della sorte, del fato, del destino, della Fortuna, quella con la effe maiuscola.

Ieri sera però, sbirciando l’ultimissima parte dell'”Eurovision Song Contest“, avrei scommesso. Avrei puntato anche forte sulla vittoria non tanto della canzone e nemmeno del gruppo musicale che la interpretava, ma dell’Ucraina. Perché oggi, a causa della guerra, la polarizzazione delle coscienze è diventata dominante: o con Kiev o con Putin. Mezze misure non ne esistono. Un po’ tutti noi pacifisti (ebbene sì!, ho detto pacifisti) ci stiamo passando per queste forche caudine modernissime.

Se ti permetti di criticare l’occidentalità di qualunque cosa, di chiunque, di qualsiasi idea, o pseudo-meta-ideologia, se ti passa per la mente di suggerire che forse una specie di manicheismo si è impadronito delle vite di tante e tanti, anche e soprattutto nella variegata oscenità (letteralmente intesa: fuori dalla scena…) della sinistra moderata e pure di quella di alternativa e radicale, la sentenza dei benragionanti e pensanti è scritta: sei un filo-putiniano.

Non puoi ricorrere in nessun grado d’appello: la monocrazia magistratuale di questo consesso pubblico di saggi della guerra impone che resti l’ambivalenza non alternante, ma dicotomica, antitetica e nettamente draconiana.

Chi non sta con l’Ucraina sta con l’Impero del Male; chi non sostiene la cosiddetta “resistenza” del popolo (che si vede sempre meno, mentre si vedono fiumi di armamenti andare a rimpinguare l’esercito di Kiev dalla leva in massa e obbligatorissima), non può che essere uno che, sotto sotto, occhieggia alla Russia e che, sempre sotto, seppure molto, prova piacere nell’avanzata delle truppe di Mosca.

Il substrato anticulturale domaninate è questo ed è diffusissimo. Non risparmia niente e nessuno. Si va da chi è sempre stato anticomunista e, attraverso collegamenti improponibili e distopici unisce passato a presente e si proietta in un futuro del tutto incredibile, nel senso di “non credibile“, fino a chi ha mantenuto una certa critica anticapitalista ma ci tiene a fare sapere che, proprio perché critico, sta sotto quell’ombrello della NATO che non è mai veramente piaciuto a nessuno nel PCI. Forse a Napolitano…

Pensare che essere comunisti oggi voglia dire stare in una equazione tra Russia sovietica e Russia putiniana, provando quindi una sillogistica simpatia per la seconda in virtù dell’amore (più o meno ricambiato) avuto per la prima, è davvero la cifra della distorsione cerebrale che si materializza in vignette, scritti, frasi e dialoghi al limite del surreale.

Tuttavia questo è il contesto in cui ci troviamo: prevale una propaganda che si afferma come buonsenso, razionalità umana, umanità razionalizzante e quindi costruzione di un’etica popolare, di un senso comune cui non si può prescindere. Pena l’essere additati come i soliti bastian contrari che, nel nome poi del pacifismo definito “pacifinto“, inconcludente utopismo di chi ritiene che evitare di armare un paese in guerra possa rallentare l’espandersi della stessa e il moltiplicarsi degli orrori, delle morti innocenti e dello strato di lutti che si stende sulle città rase già abbondantemente al suolo…

Considerare la cultura come un luogo in cui rifugiarsi, senza però estraniarsi dal tutto e da tutti, ma anzi moltiplicando le occasioni per riflettere e per formulare nuove proposte e nuove lotte politiche e sociali, era rimasta la sola possibilità di non finire nel tritatutto delle idee, nel pandemonio confonditore della logica, delle consequenzialità, della ricostruzione storica degli avvenimenti attuali.

Si è provato, in questi due lunghi mesi e mezzo, ad applicare il metodo di investigazione francese alla contingenza degli eventi, cercando di dare loro, non tanto un senso dal punto di vista morale, quanto semmai riuscire a significarne l’origine, capendo come mai questa guerra ci è parsa piombata tra i piedi dall’oggi al domani, mentre è, come ogni avvenimento umano, frutto dell’umanità stessa, delle sue azioni, delle sue scelte e delle sue decisioni.

Grave colpa anche questa: persino “Limes” e il suo direttore Lucio Caracciolo sono stati, per qualche giorno, oggetto di anatemi, improperi e stigmatizzazioni per aver studiato la genesi del conflitto e aver evidenziato che, oggettivamente, se da un lato c’era l’aggressore, dall’altro c’era chi non l’aveva fermato opponendo dall’inizio una risoluta contrarietà all’aumento della spesa militare, al riarmo, al riposizionamento geopolitico dei rapporti tra gli Stati, ad una riconsiderazione degli equilibri mondiali; semmai c’era e c’è chi ha alimentato l’imperialismo russo con altro imperialismo, la guerra con la guerra, l’industria degli armamenti con la speranza di ingentissimi profitti oggi e negli anni a venire.

Che ingenuità – possiamo dire parafrasando Bruno – pensare di scongiurare la guerra facendo appello a chi la fa e a chi non vede l’ora di farla, seppure per procura. Neppure il mondo della cultura ne è stato risparmiato. Neppure il sottoinsieme della sonorità, della musica, della trasmissione del pensiero con la poesia delle note.

Non sono mai stato un scommettitore, ammettevo all’inizio di queste righe, e non credo che lo sarò mai, ma se avessi appunto dovuto scommettere ieri su chi avrebbe vinto l'”Eurovision Song Contest“, ebbene avrei puntato tutto sullo scontato, sul lapalissiano, sul rischio minimo per un risultato massimo: l’onda emotiva del momento ha spinto i punteggi popolari a premiare l’Ucraina.

E’ indubbiamente un messaggio anche politico e sociale: l’Europa dice al mondo che sta da quella parte. L’altra parte, quella russa, è stata esclusa dalla gara, come da tante altre gare, da tanti altri eventi culturali e sportivi. Per cui la partita, almeno in questo senso, era impossibile.

Fa tutto parte del sanzionamento verso Mosca, per spingerla a rivedere i suoi piani di guerra e mettere fine al fuoco. Dall’altra parte, però, nessuno pensa di deporre le armi, nemmeno quando le metteranno giù i russi. Prova ne è la spaventatissima Finlandia che, nel giro di pochi mesi, è passata da un 30% di voglia di adesione alla NATO ad un quasi plebiscitario 70%.

Questo dovrebbe dirla lunghissima sul condizionamento delle pubbliche opinioni sull’onda del terrore indotto dallo scatenamento della guerra e dall’implementazione del conflitto con un alzamento dei toni e degli scontri che escludono, tutt’oggi, qualunque via diplomatica.

L’Ucraina vince la kermesse canora di Torino, ma ne perde la cultura, la bontà di giudizio, l’equidistanza della valutazione soggettiva di ciascuno nel preferire un motivo ad un altro: si vota per quel complesso musicale perché porta i colori del paese aggredito, del paese martoriato, di quella Mariupol che Zelens’kyj oggi incorona come nuova sede della gara internazionale tra le proposte musicali che hanno vinto le singole competizioni nazionali. Simbolicamente è una bella pensata.

Stride con quello che accade in queste ore, e giustamente, perché la città dell’Azovstal è un cumulo di macerie, di rovine, di carcasse di ogni cosa, di centinaia di cadaveri, di persone spersonalizzate. Come solo la guerra sa fare… Ma è anche una strumentalizzazione di un evento che doveva rimanere fuori dalla guerra, che doveva portare un messaggio di pace e non schierarsi con un popolo escludendone un altro, solo perché in sorte ha avuto un autocrate autoritarissimo che lo ha spinto in un conflitto devastante.

Ma l'”Eurovision Song Contest“, purtroppo, rientra perfettamente nei canoni degli eventi culturali che contribuiscono a pieno titolo a formare quella vasta opinione pubblica che, ancora meglio con la potenza della musica, può essere veicolata per trasmettere il messaggio che ci rassicura un poco tutti: noi siamo dalla parte giusta, dalla parte del popolo ucraino senza se e senza ma.

Non importa se pochi si accorgono essere prigioniero tra i giochi di guerra di due imperialismi contrapposti… Noi siamo dalla parte giusta. «Soprattutto quando sbagliamo», faceva dire Luigi Magni ad un Tognazzi cardinale che difendeva dogmaticamente la Chiesa dalle accuse di essersi allontanata dalla sua morale, dal Vangelo.

Sarebbe stato molto bello poter vedere i colori della bandiera della pace all'”Eurovision Song Contest“: un messaggio bi, tri, multilaterale. Senza popoli esclusi, senza nazioni a cui fosse preclusa la possibilità di cantare, la possibilità anche di essere fischiati. Ma nulla di ufficiale, di pubblico, sfugge alla morale dominante. E questa, si sa, riflette sempre e soltanto la volontà della classe che impera, di chi detiene veramente il controllo dei popoli. Anche di quello russo e di quello ucraino.

Non esistono morali superiori che devono prevalere su altre. Esistono le guerre che vengono combattute sulla pelle della povera gente. Che muore e che diventa l’altare sacrificale su cui mettere, domani, tutti i profitti da realizzare nella ricostruzione. Nel nome della pace e della fratellanza tra i popoli, si intende…

MARCO SFERINI

15 maggio 2022

foto: screenshot tv

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