Quale Turchia avremo se dovesse vincere le elezioni Kemal Kilicdaroglu, nato a Dersim nel 1948, alevita, laico e progressista?

Una domanda che è ormai più che legittima visto che Erdogan è al potere da oltre un ventennio, quasi una generazione, e andranno alle urne per la prima volta cinque milioni di giovani. E se la sua vicenda politica è realmente all’epilogo, è ancora più legittimo chiedersi come potrebbe essere la transizione.

In questo ventennio la Turchia, che celebra i 100 anni della repubblica fondata da Ataturk, è assai cambiata. Una generazione fa era dominata da una élite militare e secolarista, con Erdogan si è allargata agli strati più popolari e tradizionalisti rappresentati dall’ascesa del partito Akp.

Erdogan ha cavalcato questa ascesa con piglio cinico e autoritario, come prevedibile. In un’intervista al quotidiano Milliyet del 14 luglio 1996 – mentre era ancora sindaco di Istanbul – affermava: «La democrazia è come un tram, quando raggiungi la tua fermata scendi».

Da quel tram Erdogan è sceso da un pezzo mandando in carcere oppositori politici, leader curdi, giornalisti, scrittori e gente comune che ha soltanto osato criticarlo. Il suo progetto di egemonia politica e culturale, incrinato oggi dalla crisi economica e dalla tragedia del terremoto, ha soffocato la società civile turca, che molti casi, per sopravvivere, ha scelto l’esilio.

Ma la Turchia riserva sorprese e non sempre in meglio. In 40 anni chi scrive ha assistito a tre colpi di stato, di cui uno fallito, tre guerre, una interna contro i curdi, una in Iraq e un’altra in Siria, oltre al terrorismo con attentati spaventosi nel cuore del Paese.

Il 12 settembre 1980 ci fu il colpo di stato del generale Evren: passando in pullman in un villaggio vidi un uomo impiccato che penzolava dal palo della luce. Dieci giorni dopo Saddam Hussein attaccava la repubblica islamica iraniana: la Turchia era già diventata il nuovo fattore strategico della regione accanto al tradizionale ruolo di baluardo anti-sovietico della Nato di cui faceva parte dagli anni Cinquanta.

Il secondo golpe è stato definito postmoderno o «bianco», nel senso che non ci fu spargimento di sangue. Il 28 febbraio 1997 ai generali bastò far sfilare i carri armati per strada per mettere in riga il premier islamista Erbakan mentre Erdogan finiva dietro le sbarre.

Si pensava che l’islam politico fosse stato ricacciato indietro ma il lavoro condotto da Erbakan ed Erdogan aveva lasciato radici nella società che riscopriva, senza ovviamente averlo mi dimenticato, il suo ruolo di potenza ottomana, dai Balcani, al Medio Oriente, alle ex repubbliche sovietiche e turcofone.

Il terzo golpe è stato quello fallito contro Erdogan del 15 luglio del 2016. Con lo scrittore Ahmet Altan, poi gettato in carcere, passammo sui uno dei ponti sul Bosforo dove avevano ucciso un generale, il vice comandante della base Nato di Istanbul. Poche ore dopo Erdogan fece chiudere anche Incirlik dove gli Usa tengono le testate nucleari.

Più che le teorie complottiste sul ruolo dei gulenisti e degli americani, preme sottolineare che in quel momento drammatico la Turchia aveva sbattuto le porte in faccia alla Nato, come nel 2003 quando rifiutò il passaggio alle truppe Usa dirette contro Saddam Hussein.

Il fallito golpe, le primavere arabe, le conseguenze della guerra in Siria e del colpo di stato in Egitto nel 2013 contro i Fratelli Musulmani, sono stati eventi vissuti in Turchia come prove dell’ostilità occidentale nei confronti dell’islam in generale e della nazione turca nata dalla maggiore sconfitta subita in un millennio: lo smembramento dell’impero ottomano da parte delle potenze occidentali.

È questo sentimento diffuso, rimasto sotterraneo durante gli anni della repubblica kemalista, accompagnato da un senso di rivincita e di rabbia, che è riemerso in questi 20 anni nella politica estera di Erdogan. Un sentimento presente oggi anche nell’elettorato dell’opposizione.

La strategia geopolitica turca, che si basa sulla riconquista della leadership regionale, non è destinata a cambiare ma nel breve periodo, se vincesse Kilicdaroglu, si potrebbe riaccendere il dialogo tra Ankara e l’Ue, con rapporti più distesi con la Nato, accompagnati dalla liquidazione del sostegno ai gruppi islamisti e ai Fratelli Musulmani, spianando così le relazioni tra Turchia, Egitto e Israele, un’evoluzione per altro già cominciata con il presente governo.

Ma in termini strategici i mutamenti non saranno così rilevanti: la politica estera continuerà ad assecondare le ambizioni della Turchia dal Caucaso al Mediterraneo, dall’Azerbaijan alla Libia: in questi anni l’opposizione, sul fronte della politica estera, ha fatto da spalla a Erdogan, al suo governo e alla politica della “Patria Blu”.

Come pure ha sostenuto la repressione dei curdi siriani nel Rojava e dei curdi di casa. Non cambierà troppo neppure l’atteggiamento nei confronti della Russia: nessuno al comando ad Ankara può alienarsi i rapporti con Mosca per evidenti ragioni energetiche ed economiche. E forse un giorno ci si accorgerà che il problema della Turchia non è soltanto Erdogan ma la Turchia stessa.

ALBERTO NEGRI

da il manifesto.it

foto tratta da Wikimedia Commons