La rivincita bergsoniana dello spiritualismo antidogmatico

Avere coscienza significa, letteralmente, avere consapevolezza, visto che il termine proviene dal latino, dal verbo “conscire” e, più precisamente dal tema “scire“, da una radice che ci parla espressamente,...

Avere coscienza significa, letteralmente, avere consapevolezza, visto che il termine proviene dal latino, dal verbo “conscire” e, più precisamente dal tema “scire“, da una radice che ci parla espressamente, in prima battuta, del “sapere” in quanto tale. Siamo abituati a locuzioni sullo “scibile” e, quindi, su ciò che si può sapere e interpretare mediante la “conoscibilità“.

Le asonanze tra termini apparentemente differenti fra loro, quando non in antitesi, dimostrano che, in fondo, il nostro modo di esprimerci, di attribuire ad ogni evento, cosa, persona, fatto, evento intangibile, metafisico o concretamente reale e tangibile delle espressioni universali, seppure tradotte nelle diverse lingue, è un codice condiviso che va oltre una semplice catalogazione metodica.

Prima che europei e nativi americani venissero in contatto nel 1492, civiltà incompatibili fra loro avevano sviluppato una conoscenza dei fenomeni naturali e del rapporto tra l’essere umano ed essi che, per quanto potesse essere giudicata come “primitiva” dai conquistadores, in realtà somigliava moltissimi a quella del passato di quello che oggi definiamo il “mondo occidentale“.

A cosa potrebbe mai essere attribuita questa somiglianza di interazione tra noi e il resto dell’esistente se non al fatto che nell’essere animale-umano vi sono le stesse precondizioni strutturali, cognitive, emozionali, psicologiche e pratiche, che gli permettono di indirizzarsi e di indirizzare la propria storia evolutiva in un determinato percorso piuttosto simile, con tratti distintivi di universalità?

Ciò non significa tentare la dimostrazione dell’innatismo idealistico platonico, ben lontano dall’essere quello che qui intendiamo discutere: ossia che la nostra materialità corporale non è la sola caratteristica che ci contraddistingue; c’è in noi una coscienza che è conoscenza e che, quindi, è potenza, forza, capacità di espressione di un atto, di un qualcosa che, istintivamente, mettiamo in pratica ogni giorno.

La coincidenza tra psiche e corpo, tra spirito e materia, tra percezione e realtà, è una dualità che attraversa tutta la storia della filosofia. Dai presocratici fino ad oggi. Perché sottintende, anche se non vuole spesso e volentieri confessarselo apertamente, che da questa indagine meticolosa possa arrivare una qualche prova dell’esistenza di uno strato immateriale dentro la nostra fisicità o, in un certo qual modo, ad essa complementare.

Un po’ come la carta velina trasparente che sembra inseparabile da quella bianca. Entrambe avvolgono gli alimenti che comperiamo e, molte volte, facciamo anche fatica a staccare la prima dalla seconda, quasi fossero inscindibili. In questo caso noi sappiamo, quasi a priori, che ci sono due strati di carta, l’uno sopra l’altro. Nel caso invece di noi stessi, pur sapendo che siamo corpo e anche qualcosa di diverso dal corpo stesso, non possiamo dimostrarlo.

Se compiamo un gesto, ad esempio se accarezziamo un cane, è solamente la mano che fa quella carezza a compiere il gesto o è anche la volontà che viene espressa mediante la protesi fisica del nostro corpo? E questa volontà di accarezzare da dove proviene? Dal nostro cervello, certo. Dallo scambio neuronale di informazioni sotto forma di impulsi elettrici. Ma tutta questa attività interna può essere soltanto ricondotta a qualcosa di fisico, di tangibile, di “positivo“?

La conoscenza, che indubbiamente può essere docente della coscienza stessa nel suo continuo formarsi, è un processo attribuibile esclusivamente alla sensibilità oggettiva o anche ad un soggettivismo che è, in quanto tale, inconoscibile mediante le categorie universali che, tramite pensiero, linguaggio, comprensione di ciò che ci circonda, possiamo dire che l’essere umano abbia insite in sé?

Ci stiamo facendo quasi solamente delle domande perché, in questo accenno di indagine sullo spiritualismo moderno, restano inevase molte risposte che, pure, sono possibili ma anche improbabili. Quando parliamo di conoscenza oggettiva, è ovvio che ci riferiamo anzitutto all’al di là della mera percezione. Il percepito rimane nel perimetro angusto (e tuttavia molto speciale) del rapporto molto stretto tra noi in quanto coscienza e il resto da noi in quanto realtà.

Noi facciamo parte della realtà, ma non esauriamo la realtà in quanto tale. Così come la vita fa parte dell’esistenza, ma non spiega, di per sé l’esistenza stessa. Al pari di ciò, il tentativo positivistico di spiegare razionalmente e scientificamente tutto ciò che esiste e, quindi, attribuire un senso all’insieme unico delle cose, dell’universo stesso, termina nella contraddizione di essere insufficiente a sé medesimo.

Non fosse altro per un gioco filosofico-accademico che, nel divertire, lascia un po’ di amaro in bocca e di frustrazione nella mente: la razionalità con cui i positivisti intendono scientificamente spiegare tutto è parte dell’essere umano che, a sua volta, è parte della vita che, a sua volta ancora è parte dell’esistente. Come può il particolare spiegare l’universale? Come può ciò che è compreso spiegare ciò che lo comprende?

Quando Henri Bergson, pur non avendo mai voluto essere un nemico di nessuna scuola di pensiero, di nessuna corrente filosofica, diventa il cavaliere della riscossa dello spiritualismo contro il positivismo (ed anche contro l’idealismo che, al pari, aveva tentato la spiegazione assoluta dell'”essere” e dell'”esserci“), i tempi sono ancora poco maturi per poter affrontare un dibattito sull’interiorità umana raffrontata all’esteriorità.

Almeno in chiave moderna. L’indagine freudiana tenterà la dimostrazione, attraverso la similitudine di tanti casi, di una correlazione stretta tra coscienza del soggetto e confronto con il fuori da sé: la scoperta dell’inconscio diventerà, quindi, un tassello ulteriore di conoscenza della coscienza, di una sua possibile esplorazione là dove termina la volontà e dove prende il sopravvento il desiderio inespresso.

Causa delle nevrosi sono, infatti, i conflitti tra cercato, voluto e ambito rispetto all’evitato, al represso, al non concesso a noi stessi per via delle convenzioni socialmente, civilmente e culturalmente stabilite entro un confine comportamentale in cui vale l’adeguamento ai valori condivisi e non la piena espressione di ciò che non vediamo e che sedimenta dentro noi e, per questo, ci crea una contraddizione e, così, della sofferenza in forma di disagio psichico.

Così, se riprendiamo i concetti e le tesi di Bergson, ma pure quelle di Freud o di Nietzsche, mai come prima viene da pensare che, tanto nella ricerca della sensatezza quanto nell’accettazione dell’insignificanza (leggasi: nel non poter attribuire un significato) della vita e dell’esistenza, c’è una manifestazione della lotta tutta nostra per capire se siamo soltanto carne o anche psiche, spirito, anima, flusso di sentimenti non riducibile soltanto a connessioni sinaptiche.

Bergson prova con l’argomentazione del tempo a dare le linee fondamentali del suo spiritualismo, unitamente a quella “evoluzione creatrice” che è uno slancio vitale continuo e che, quindi, sembra essere tanto dentro al tempo quanto ragione del tempo stesso. Sarà capitato anche a voi, oltre ad avere una musica in testa, di percepire il tempo in modo diverso nello stesso momento, quindi dentro una unità di tempo ben definita. L’ora, l’oggi, il presente.

Se siamo in un luogo ad aspettare qualcuno e questi tarda ad arrivare sembra che il tempo non passi mai. Ma se guardiamo l’orologio, ci accorgiamo che il tempo non rallenta affatto e nemmeno accelera. Le lancette ne scandiscono il passare sempre nello stesso modo, sempre negli stessi intervalli stabiliti dalla misurazione umana.

Perché, allora, il tempo ci sembra che sia infinito nel suo passare in determinati contesti e, invece, velocissimo in altri? Risponde Bergson che il “tempo esteriore” (altrimenti detto “fisico“) è quello “spazializzato“, quindi quello dell’automobile che si muove su una strada, di una palla che rotola in un campo, di noi che camminiamo e ci guardiamo intorno, degli orologi, per l’appunto, che lo misurano e ci permettono di stabilire un confronto tra ciò che stiamo facendo e l’insieme del tempo che viviamo.

Mentre il “tempo interiore“, più schiettamente la nostra percezione del tempo, è quello della “coscienza“, quindi un tempo fondamentalmente legato alla nostra psiche, al nostro soggettivismo più puro e inestricabile. Se misurare il tempo nello spazio è abbastanza facile, almeno sul piano scientifico, quindi matematico e fisico, provare a misurare la nostra percezione del tempo è pressoché impossibile.

Questo perché le nostre emozioni, che ci abitano e da cui ci sentiamo spesso plasmati, oltre che positivamente o negativamente inebriati, non seguono una linearità geometricamente definibile e misurabile, ma si accatastano, si sviluppano in una irripetibilità che rende unica ogni sensazione e che, quindi, trascende il concetto fisico di tempo come quarta dimensionalità dell’esistente.

Noi siamo nello spazio e nel tempo, coscientemente, ma la nostra consapevolezza dello spazio e del tempo può essere alterata nella sua oggettiva fisicità attraverso la “durata” che noi, soggettivamente, diamo a ciò che riteniamo più o meno importante nella nostra esistenza. Se un film è noioso, ci sembrerà che non finisca mai. Se un incontro amoroso è invece trascinante e pieno di passione, ci sembrerà che il tempo passato ad amare sia sempre troppo breve.

La spontaneità delle nostre emozioni fa sì che la misurazione del tempo interno sia, per quanto la si possa tentare in approssimazione, stabilendo quindi una gerarchia di importanza tra fatti che ci regalano grande piacere e utilità e fatti che ci consegnano invece enormi dispiaceri e quindi ci sono di nocumento, qualcosa di estremamente incongruo.

Il tempo interno, che è proprio della coscienza, lo sappiamo spiegare a noi stessi, distinguendo tra passato (memoria), presente e futuro (immaginazione). Il tempo esterno, arguisce Bergson, è invece inspiegabile se non con gli elementi di una fisica che, tuttavia, se risolve determinate questioni legate alla relatività generale, persino alla distorsione dell’immagine dell’Universo mediante la curvatura spazio-tempo, e che quindi non spiega il tempo in quanto tale.

L’antica questione sollevata da Agostino rimane inevasa, senza spiegazione e ci riporta alla risoluzione del problema tra coscienza, conoscenza, scienza e tempo soltanto nella separazione di questi elementi e nella introspezione del tutto particolare e soggettiva che abbiamo del susseguirsi di quelli che chiamiamo “attimi“, come piccoli punti su una linea immaginaria che tende all’infinito e proviene dall’infinito.

Merito di Bergson è aver riproposto, in chiave moderna, l’enigma della conoscenza entro i termini della finitudine umana che, tuttavia, proprio perché non ridotta alla sola materialità fisica della corporeità, lascia aperto uno spiraglio alla possibilità che lo spirito sia qualcosa di qualitativamente diverso dalla trasposizione religiosa riprodotta nel concetto cattolico di “anima” (concetto che precede la nascita del Cristianesimo…).

Ogni emozione che arriva allo spirito mediante la nostra fisicità diventa o no, quindi, patrimonio cosciente e coscienzioso dello spirito stesso? Oppure esiste una percezione interiore che prescinde da quella esteriore? La carezza che io faccio ad un cane rimane in me come esperienza soltanto fisica o anche introspettivamente spirituale?

Proprio nella trattazione della memoria, come rapporto tra materiale e immateriale, tra corpo e spirito, Bergson affronta il tema della congiunzione che i positivisti avevano proposto tra cervello e interiorità. E’ pensabile che la nostra esistenza sia soltanto riducibile (oltre che riconducibile) ai movimenti neuronali? Non è una domanda superficiale da parte di un filosofo privo di studi in materia.

Bergson aveva infatti passato tantissimo tempo su testi e ricerche che riguardavano le scienze naturali e, per quanto possibile, parlava e scriveva con una certa cognizione di causa. Non esiste una risposta, anche qui, esaustiva, ma soltanto quella che, per approfondimento di studio, associato al proprio conseguente convincimento (certamente influenzato da una eterogeneità culturale formatasi nel tempo), si può tentare di dare.

Per il filosofo francese, in sostanza, la coscienza umana è qualcosa che trascende la pure enorme complessità cerebrale che ci contraddistingue. Tante cose può elaborare la nostra mente, ma può farlo proprio perché non è solamente qualcosa di materialmente dato come tale. Non è necessario trovare una sede fisica allo spirito, come avevano fatto i positivisti identificando l’anima nel cervello.

Quello che conta è ritenere spirito e corpo correlati, così che il primo sia compreso nel secondo pur mantenendo la propria specificità, tutte le proprie particolarità che, attraverso gesti, sguardi, percezioni e sensazioni si arricchiscono di continuo nel processo di “evoluzione creatrice” a cui nulla è sottraibile. La prosa degli scritti bergsoniani e la sua esposizione incantarono tanto i letterati quanto i politici di fine Ottocento e inizio Novecento.

Ognuno volle leggere nelle sue speculazioni filosofiche un sostegno ad una particolare causa: una parte del mondo religioso per una visione esclusivamente spiritualista dell’essere umano e del mondo (e sappiamo che non era così); una parte del mondo socialista e marxista vi riscontrò le ragioni di una tendenza progressista in un miglioramento evolutivo tanto dell’uomo quanto di ciò che lo circondava.

Lo spiritualismo bergsoniano è antidogmatico, non è pretestuoso e nemmeno saccente. E’ una indagine su sé stessi e sul mondo, in quanto esistenza che ci prescinde e ci include nello stesso istante. E’ un accostarsi alla scienza, perché proclama la necessità della speculazione filosofica che non basta a sé stessa così come la scienza non è in grado di spiegare tutto. E’, quindi, un sovvertimento degli schematismi del passato e una innovazione per una meditazione culturale ad ampio spettro.

Qualunque tentativo di traduzione di Bergson in chiave opportunistica, religiosa o laica che sia, non può riuscire compiutamente. Il suo lascito è il fascino che regala una grande osservazione introspettiva che ha il pregio di non pretendere di dare un senso razionale al tutto, ma di fermarsi un attimo prima. Coscienziosamente consapevole che siamo nella finitudine.

Che siamo fatti di confini e circondati, almeno qui nel mondo terrestre, nel nostro microcosmo, da linee che delimitano e che non sono infinite. Per quanto si possa tentare di capire il tutto, l’essere, l’esistere, non si avrà mai una risposta esaustiva e definitiva. Probabilmente questo mistero rimane una delle ragioni della tensione emotiva che ci permette, molte volte, di sopravvivere. Nella speranza.

Ma molto meglio, comunque, la lotta per migliorare le condizioni di una esistenza che, almeno qui, nel particolare, ha un senso. Vivere guardando alla insensatezza del tutto è ridurre ai minimi termini i grandi problemi che percepiamo come tali. Vivere trascendendo dalla realtà per ritornare in essa e farne un luogo meno aspro e inospitale. Per ciascuno, per tutti.

MARCO SFERINI

28 gennaio 2024

foto: elaborazione propria; sullo sfondo Vasilij Vasil’evič Kandinskij “Nel grigio” (1919), in primo piano ritratto fotografico di Henri Bergson (1927)

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Il portico delle idee

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