La Corte internazionale di giustizia dell’Aja ha accolto le richieste avanzate dal Sudafrica affinché vengano applicate misure immediate in prevenzione di un genocidio a Gaza. Malgrado la sentenza non abbia menzionato la richiesta di un cessate il fuoco da tutti auspicato, il contenuto delle disposizioni è tale da sottintenderlo.

Particolarmente significativo, l’obbligo a cui viene richiamato Israele di impedire omicidi, gravi danni fisici o mentali, distruzione fisica totale o parziale deliberata del popolo palestinese e l’imposizione di misure che possano impedire le nascite.

La Corte risponde alle richieste fatte dal team legale e politico sudafricano lo scorso 12 gennaio. Tra queste, appunto, quelle dell’avvocato Adila Hassim riguardanti l’aumento dei tassi di mortalità materna e neonatale, che potrebbe configurare un deliberato tentativo di eliminazione del popolo palestinese e la violazione dell’Articolo II(b) riguardante i gravi danni mentali e fisici ai palestinesi di Gaza.

La corte ha inoltre imposto a Israele, con effetto immediato, la garanzia che le sue forze militari non commettano nessuno degli atti criminali elencati dai legali sudafricani – come gli attacchi al sistema sanitario palestinese, l’incitamento alla violenza, gli abusi sulle donne, l’umiliazione di uomini, bambini. Egualmente vengono confermate le allegazioni presentate dall’avvocato Tembeka Ngcukaitobi riguardo l’utilizzo di discorsi genocidiari da parte di leader politici con responsabilità di governo e ufficiali militari.

Secondo la ministra delle Relazioni internazionali sudafricana Naledi Pandor «il salvataggio di vite umane non riguarda solo il cessate il fuoco.

Si tratta di garantire che gli aiuti umanitari siano forniti a coloro che hanno bisogno di sostegno, così come di garantire che lo Stato di Israele, che è attualmente uno stato occupante che amministra la Palestina, fornisca i servizi di base necessari di cui hanno bisogno i residenti di Gaza e della Cisgiordania». In questo la corte è stata esplicita, imponendo l’obbligo a Israele di «adottare misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura dei servizi di base e dell’assistenza umanitaria urgentemente necessari».

La rappresentanza sudafricana si dice soddisfatta della richiesta avanzata a Tel Aviv di presentare un report tra un mese ritenendo comunque cruciale nel frattempo il monitoraggio della situazione.

Secondo Pandor «ciò che vogliamo è che gli Stati membri delle Nazioni unite supervisionino il processo e garantiscano di creare le basi per una comunità globale in cui non sia più così facile ricorrere alle armi, in cui gli abusi non vengano così spesso tollerati, e che maggiori sforzi siano diretti alla negoziazione e alla ricerca di mezzi pacifici per porre fine al conflitto». Inclusa la creazione di due stati.

Mentre Israele continua ad affermare che si tratta di una questione politica tra Israele e Sudafrica, Pretoria, in virtù della sentenza della corte, continua a sottolineare il regime di occupazione illegale e violenta della Palestina da parte di Israele e l’inammissibilità della linea che insiste sulla “legittima difesa” dopo il brutale attacco di Hamas del 7 ottobre.

Non si tratta di un caso tra Israele e Sudafrica ma di una azione giudiziaria il cui intento è quello di mettere alla prova la legittimità degli organismi internazionali «nell’esercitare la loro responsabilità nel proteggere tutti noi come cittadini globali».

E questo – oltre all’aspetto umanitario di una fratellanza che unisce il popolo sudafricano a quello palestinese – è probabilmente il maggiore significato di quest’azione legale: smascherare l’assenza di contenuto concreto di una serie di norme internazionali; interrogare l’applicazione di standard differenti quando si tratta di proteggere cittadini di differenti aree geopolitiche – osservazioni che la guerra in Ucraina aveva già sollevato; denunciare l’impunità garantita, colpevolmente, ad Israele dalla comunità internazionale.

La Corte ha ribadito che non si tratta di una decisione sull’accusa di «genocidio», ma è evidente che – nel caso il giudizio di merito lo confermi – tutti gli stati che hanno appoggiato Israele saranno ritenuti complici della violazione della Convenzione. Questo sottintende che Germania, Regno Unito e Stati Uniti debbano assumersi le proprie responsabilità.

Ma anche tutti gli stati che non hanno dichiarato il proprio appoggio all’azione legale contro Israele. Nel suo comunicato stampa il Dipartimento per le Relazioni internazionali e la cooperazione (Dirco) del Sudafrica dichiara: «Gli Stati terzi sono ora consapevoli dell’esistenza di un grave rischio di genocidio contro il popolo palestinese a Gaza. Quindi devono anche agire in modo indipendente e immediato per prevenire questo genocidio e per garantire di non violare essi stessi la Convenzione. Ciò impone necessariamente l’obbligo per tutti gli Stati di cessare di finanziare e facilitare le azioni militari di Israele, che sono plausibilmente genocide».

L’azione giudiziaria sembra aver istituito una corte internazionale pubblica, in cui la società civile globale è chiamata a far pressione perché i governi occidentali rispettino i diritti umani e internazionali di cui ipocritamente si dichiarano difensori.

I sudafricani stanno invece vivendo un momento di grande orgoglio nazionale. Al South Africa Boycott, Divestment and Sanctions (SA-BDS) si dicono «orgogliosi che il governo sudafricano abbia portato il paese dell’apartheid davanti alla Corte internazionale di giustizia». Terri Maggott, membro della Palestinian Solidarity Campaign, ha aggiunto: «Il nostro appello per un “cessate il fuoco adesso” deve risuonare più forte che mai. Spetta a noi – persone di coscienza di tutto il mondo – sollevarci in un numero senza precedenti e chiedere la fine immediata del genocidio».

LAURA BUROCCO

da il manifesto.it

foto: screenshot tv