Il grande tema del reddito e del salario nella nuova era di guerra

Anche Thomas Piketty riparte dalla crisi della Covid-19 per spiegare la necessità di un salto di qualità ulteriore per il movimento progressista mondiale (ammesso che si possa riconoscere in...

Anche Thomas Piketty riparte dalla crisi della Covid-19 per spiegare la necessità di un salto di qualità ulteriore per il movimento progressista mondiale (ammesso che si possa riconoscere in questa definizione una vera sinergia socio-politico-sindacale su scala globale). In alcuni articoli datati 2021, ed in altri più recenti, espone la convinzione economica che l’avanzata dei diritti degli sfruttati moderni non stia tanto nel dibattito su quale tipo di riforma mettere in campo; semmai su quale insieme di riforme riuscire a lavorare affinché si crei una complementarietà tra salario minimo, lavoro garantito, eredità per tutti.

A distanza ormai di un anno dalla dichiarazione, da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, di conclusione della pandemia da Coronavirus, il bilancio sociale è devastante: la povertà è aumentata a livelli incredibili, eppure credibilissimi se si guardano i dati e li si raffrontano con i flussi migratori o con gli stati di sofferenza dei ceti più deboli dei popoli tanto del sud quanto del nord del mondo; le guerre imperversano e delineano una nuova fase imperialista nelle dinamiche competitive nel multipolarismo del nuovo millennio.

In due anni di guerra in Ucraina, la cosiddetta “economia di guerra” si è presa la scena rispetto ad un tentativo di riemersione delle ragioni sociali e ha imposto un severo diktat soprattutto nei confronti di quei governi che avevano provato a mediare tra pubblico e privato, tra bisogno del mondo del lavoro e voracità liberista del mondo dell’impresa. Anche la digitalizzazione delle monete, la fantasmagorica epopea delle valute digitali, invece di dare seguito ad una idea alternativa di sistema bancario, tutto incentrato sul ruolo pubblico, ha finito coll’essere un affare per i privati.

Il tema del salario, dunque, era, è e rimarrà al centro delle rivendicazioni di un moderno proletariato, che chiamiamo così per sintetizzare più emblematicamente la grande massa degli sfruttati di oggi, tanto atomizzata quanto parcellizzata e precarizzata, sempre più difficilmente osservabile sotto un’unica lente scientifica in quanto classe unica, in sé e per sé, eppure tale. Partendo dall’analisi del reddito di base, da un salario minimo indispensabile, se si guarda alla nostra Europa, è evidente che ne esistono svariate tipologie.

Passi avanti, certo, rispetto all’Italia del governo Meloni che ne fa tre indietro nel momento in cui abolisce l’unica riforma sociale che abbia visto la luce da molto tempo a questa parte, dopo i disastri della Legge Fornero e del Jobs Act: il reddito di cittadinanza. La sostituzione con l’Assegno di Inclusione è una sorta di palliativo, di surrogato, di ribasso che compiace il mondo delle imprese e tenta di mantenere una impossibile pace sociale in un Paese sempre più disperato e diseguale. Lo riconoscono un po’ tutti gli analisti di impostazione marxista o anche solamente keynesiana: i salari minimi sono uno strumento parziale di lotta.

Hanno il pregio di aprire però il fronte delle rivendicazioni ulteriori: non quella di un “reddito universale“, a cui Piketty obietta opportunamente di essere «un concetto che promette più di quanto possa garantire», bensì quella di un reddito fondamentale, per l’appunto di base che sia ricavato dalla sottrazione alla grande massa dei profitti di una parte degli stessi mediante tassazioni patrimoniali e non una tantum. L’intervento politico è necessario e deve essere supportato da una azione sindacale che ha il compito di incentivare la coscienza di classe.

Il sindacato, oltre a svolgere i suoi importantissimi compiti di assistenza fiscale, giuridica, contrattuale per tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori, nonché per il vasto e variegato mondo della precarietà e del lavoro parasubordinato o, peggio ancora, del lavoro subordinato a tempo determinato (la grande marea di ciclofattorini, comunemente conosciuti come “riders“), deve rimettersi alla testa di un grande movimento di rivendicazione sociale che spinga i partiti della sinistra in Italia, ed in Europa, ad esigere ciò che un senatore democratico e socialista come Bernie Sanders sta chiedendo negli Stati Uniti d’America con una nuova proposta sulla diminuzione delle giornate lavorative a parità di salario.

La consapevolezza della difficoltà del momento non deve indurre a pensare che, visto che ce lo chiedono lorsignori, dobbiamo fare la nostra parte per attutire gli effetti della crisi globale nei confronti della “produttività” e del “benessere comune“. Troppe volte si invocano questi due concetti per tratteggiare una minimizzazione degli effetti devastanti del liberismo odierno. Si prova, come fa Milei in Argentina, a rovesciare tutta la responsabilità del dilagare inflazionistico, dell’aumento del pauperismo e del rigonfiamento delle percentuali di indigenza massima sul pubblico, sulle istituzioni e sul rapporto che hanno con la popolazione.

Il capitale deve salvare la faccia. E trova politici ed economisti di turno che sono pronti a negare la luce del sole pur di favorirlo e di stare sotto la sua ala protettiva. Solitamente si tratta dei peggiori esempi della destra su scala planetaria: Trump, Milei per l’appunto, Bolsonaro, Orbán, Sunak, tanto per fare qualche nome sufficientemente noto. Ma le ragioni della grande impresa, oltre all’ombrello protettivo degli organismi di Bretton Woods e delle nuove banche centrali continentali, trovano ascolto anche in quei settori politici che dovrebbero invece guardare esclusivamente agli interessi sociali e popolari.

Il dramma della sinistra mondiale è proprio la rincorsa all’accreditamento, presso i grandi poteri economici, per un riconoscimento di garanzia, di efficienza politica, di rappresentanza anche degli interessi privati oltre che di quelli pubblici. Un sensalismo ipocrita che impedisce, nella trattativa per il potere, di tradurre in pratica le deleghe popolari espresse mediante tante finzioni democratiche che vengono, poi, evidenziate come esempi di lungimiranza poltica e di tradizione plurisecolare di libertà di espressione quando si devono fare le guerre contro gli oscurantismi terroristici. Che pure esistono e persistono, grazie non certo ai poveri e agli ultimi di questo mondo.

Piketty rilevava, qualche anno fa (per cui oggi le percentuali possono essere lievemente differenti), che, se si parla di cumulazione di reddito in forma di sostanza patrimoniale, se si pensa ad una forma di risparmio nel tempo, il 50% della popolazione mondiale negli ultimi trent’anni non ha mai avuto praticamente niente. Non ha quindi mai quindi trarre dal proprio salario alcunché che potesse trasformarsi in “eredità“. L’ineguale sviluppo capitalsistico non fa che allargare la forbice delle differenze abissali tra grandi, pochi ricchi e altrettanto grandi ma moltissimi poveri.

Se si va a leggere il “World Inequality Report” del 2022 (la situazione italiana è riportata molto dettagliatamente nel “World Inequality Database“), sostanzialmente il dieci percento della popolazione mondiale detiene oltre la metà del reddito disponibile; mentre la metà più indigente arriva a mala pena all’8,5%. Ma se si analizza la ricchezza, il divario diventa abnorme e conferma, sostanzialmente, l’analisi marxista di accumulazione in sempre minori mani di enormissimi capitali, di sempre più ridotte speranze di sopravvivenza per oltre due miliardi e mezzo di salariati.

La rincorsa dei paesi a liberismo avanzato, e di quelli a capitalismo più o meno di Stato, verso la ricerca di una standardizzazione del saggio di profitto, della individuazione quindi di una forma di stabilità interdipendente che consenta a tutti di adire al diritto non scritto di produrre per prosperare nel regime della competizione universale, assume le proporzioni dell’emergenza attuale: i fronti di guerra che si aprono in Europa, in Medio Oriente e nel Pacifico (nonché un pullulare di conflitti micro-regionali in Africa ed Asia) sono una della ragione di questa ricerca, a tratti paradossale, di nuova stabiltà.

L’industria degli armamenti fa profitti oggi al pari di quelle farmaceutiche al tempo della pandemia da Covid-19. Le crisi indeboliscono e sorregono il capitale del nuovo millennio. Al netto, il sistema non ne beneficia, ma riesce a stare a galla. La vera partita, quella ingestibile se non tramite un capovolgimento del sistema stesso, è per il liberismo la crisi ambientale. Le dinamiche della natura sono in parte prevedibili, ma le misure che necessitano gli interventi su scala mondiale per evitare il collasso della specie umana, dopo quello della complessità ecosistemica, determinerebbero la fine del capitalismo.

La lotta a favore del lavoro, contro l’economia di mercato, contro il profitto e la sua cumulazione, è l’unica che permette di unire ragioni sociali ed ambientali: non va solo ridotta a trentadue ore a parità di salario la settimana lavorativa. Va cambiato il regime produttivo. Va riformato il capitale tanto variabile quanto quello costante, attraverso quella “transizione ecologica” che, purtroppo, è solo sulla carta e per niente nei programmi dei governi nazionali e delle organizzazioni transnazionali. Si deve, dunque, ripartire dal salario, da una riforma del mercato del lavoro.

In Italia i lavoratori dipendenti sono circa diciassette milioni. Di questi, un terzo percepisce ogni mese meno di mille euro e, grazie alla controriforme del governo Meloni, ha sempre meno accesso ai servizi essenziali, di base: scuola pubblica, sanità pubblica, tutele fondamentali per i più poveri. Si lavora, pedalando per le strade e le vie delle città, per sette euro all’ora con ritenute d’acconto del venti percento. La discontinuità dei rapporti di lavoro aumenta sempre di più, mentre le televisioni magnificano i segni positivi davanti alle cifre che mostrerebbero l’incremento dell’occupazione.

Una occupazione a carattere variabile, non fissa, nemmeno quasi più precaria. A chiamata, là dove il part-time è la regola e non l’eccezione. Il confronto tra i salari italiani e quelli degli altri paesi europei dovrebbe imbarazzare il governo che, invece, si vanta di risultati ottenuti soltanto dal punto di vista del profitto privato. In Italia un salario minimo lordo annuo si attesta sui 31,5 mila euro. Mentre in Francia siamo a 41,7 mila euro, ed in Germania a 45,5 mila euro. I ritardi sui rinnovi contrattuali pesano davvero molto. E qui manca non solo la volontà imprenditoriale, ma il dovere politico di spingere in questa direzione.

Quasi sei milioni di lavoratori in Italia percepiscono, quindi, un mensile che si attesta sugli 850 euro. Se si considerano, affitti e bollette, magari un figlio a carico, cosa resta per vivere decentemente? Poco e niente. I dati forniti da uno studio della CGIL uscito proprio in questi giorni, parlano chiaro e non permettono interpretazioni di sorta. Poi tocca leggere e ascoltare le parole della ministra Santanché: «Per i lavoratori stagionali c’è stato un incentivo gigantesco: abbiamo tolto il reddito di cittadinanza. Mi sembra il più grande incentivo che il governo potesse fare, tant’è che oggi la situazione sta un po’ migliorando rispetto agli anni scorsi».

E tutto torna al punto di partenza: non si può fare affidamento sui padroni, sugli imprenditori e sui governi loro sodali per cambiare la situazione. L’alternativa dovrebbe venire da sinistra. E questo è un altro capitolo, più volte affrontato, su cui per ora ci si può, almeno per un istante, esimere dal trattarlo, visto che il progressismo vero non lo puoi fare con Calenda e Renzi. E forse nemmeno col PD. Ma… in dubiis abstine. Da cosa e perché dovremo cominciare a capirlo, prima o poi.

MARCO SFERINI

19 marzo 2024

foto: screenshot ed elaborazione personale

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