Ecco perché avete smesso di crederci e di lottare…

Lettera aperta alle comuniste e ai comunisti, ai libertari, a tutti gli sfruttati Care compagne, cari compagni, per molti di voi il Covid-19 non è stato solamente un virus...

Lettera aperta alle comuniste e ai comunisti, ai libertari, a tutti gli sfruttati

Care compagne, cari compagni,

per molti di voi il Covid-19 non è stato solamente un virus che è piombato prepotentemente nella pur stanca ritualità di giornate già abituate alla inconsapevole (talvolta anche inconoscibile) mediocrità dei tempi. E’ stato di più: è diventato un pretesto per aggravare la già torbida e spessa coltre di malta che non è servita ad unire mattone su mattone ma a separarlo con sempre più strati, sostituendosi all’essenziale, facendo del singolo non una parte del tutto ma solo sé stesso.

Vi siete rinchiusi non nelle case-rifugio per paura del coronavirus, ma per avere un alibi che vi consentisse di non rimettere mano ad una riorganizzazione della sinistra di alternativa e di opposizione. Avete dato per scontato, visto che per scontati eravate e siete voi oggi su questo versante, che tutti fossero rassegnati o che lo fosse la maggior parte del movimento anticapitalista in Italia, di quello comunista e libertario.

Forse nemmeno sapevate più per che cosa lottavate, consunti da decenni di logica maggioritaria, di devozione più o meno acquiescente alla dittatura del “meno peggio“. Ci siamo caduti un po’ tutte e tutti, ma qualcuno ha saputo riconoscere – seppur tardivamente – gli errori compiuti e ha provato a rimettere al centro della lotta prima di tutto lo strumento da rigenerare per fornire ai lavoratori, ai precari, ai disoccupati e a quanti sono sfruttati, studenti e pensionati compresi, migranti e nuove forme di lavoro domestico moderno, l’unica possibilità di crescere in forza, di diventare alternativa al potere dominante, di proiettare sulla società una società capovolta.

Questo strumento è e rimane il Partito. Quello con la pi maiuscola, non per antonomasia, ma certamente per eccellenza: perché il partito del comunismo libertario, dell’anticapitalismo e dell’antiliberismo esiste anche se non c’è più una dialettica che, nel rispetto delle differenze tattiche, rimetta in moto una strategia complessiva che lo rifaccia vivere nella sua complessa – e pure essenziale – forma che diviene sostanza quando esiste la partecipazione, quando ritrova un suo significato l’organizzazione, quando un punto di vista non è soltanto una idea ma una visione esattamente speculare di quanto oggi viviamo.

Il Covid-19 ha regalato a molti di voi questo alibi e non una opportunità: quella di fermarsi un attimo per riflettere, per pensare, per progettare nell’autunno una ripresa del cantiere delle sinistre di alternativa e di opposizione, aperto a tutte e tutti coloro che hanno abbandonato l’impegno politico e sociale nel corso del tempo. Troppe sconfitte elettorali, ridimensionamenti del ruolo sindacale un po’ ovunque, contrazione dei salari e maggiore difficoltà nel vivere quotidiano. E’ comprensibile ma è stato commesso un errore enorme che ha condizionato decisamente il percorso di rivitalizzazione della sinistra comunista e genericamente definibile come anticapitalista e antiliberista.

Si è iniziato a pensare che vita personale e politica potessero essere scissi e che, quindi, la priorità fosse vivere e non immediatamente fare politica, impegnarsi nel sociale. Il pensiero comune che si è diffuso ha allignato su di sé tutta una serie di concetti e preconcetti che hanno mostrato come, proprio per evitare la disperazione e un futuro incerto, occorresse correre ai ripari e, in fondo, viste le tante perdite, la consunzione progressiva dei partiti e dei movimenti, del volontariato stesso, fosse molto più utile dedicarsi alla “propria” vita, tralasciando l’attività di partito, l’attività politica e sociale.

Quanta differenza e stridore c’è tra le percezioni dell’oggi sulla propria esistenza e quanto si cantava negli anni ’70 e ’80: «L’unica cosa che ci rimane è questa nostra vita, allora compagni usiamola insieme prima che sia finita…». Adesso è l’opposto: usiamola separatamente, ciascuno nella sua singolarità quotidiana e magari classificando un po’ di tempo dato al Partito come una sorta di “regalo” fatto al medesimo; non più come la valorizzazione dell’esistenza stessa di ognuno di noi.

Fare politica, battersi contro il capitalismo e tutte le ingiustizie che provoca è vita, è coscienza, è lotta di classe, è determinazione a dare un plusvalore proprio a sé stessi, introducendo nella giornaliera ritmicità delle nostre azioni un elemento che sfugge al sistema, alla normalizzazione forse impercettibile oggi ma ben visibile in un recente passato in cui, per l’appunto, era la coscienza sociale a dimostrare allo sfruttato ciò che veramente esso era per sé stesso e verso il sistema.

Care compagne, cari compagni, ho riflettuto credo abbastanza in questi mesi dopo aver assistito alla crescita del virus dell’individualismo peggiore: quello che assume le fattezze non dell’egoismo rampantista, semmai del buon prendersi cura di sé stessi, trascurando tutto ciò che distrae dalla “propria” vita. Una proprietà che non esiste, se si osserva da vicino ogni frammento di sé stessi: una proprietà che esiste solamente a certe condizioni e che, per molti, sono condizioni capestro, schiavismo a cielo aperto, in barba a diritti costituzionali, voti meno peggiori di altri e ligi comportamenti da bravo cittadino.

Non credo che il tema sovrano della sinistra di alternativa e di opposizione possa trovare una soluzione se non si lavora su una dimensione collettiva della vita, se non ci si estranea dalla concezione solitaria ed individuale della felicità come l’unica, la sola possibile.

La vittoria del capitalismo, quella più grande che gli consente di sentirsi al sicuro da qualunque nuova minaccia di sovvertimento del sistema esteso sull’intero globo, è questo conformismo dai contorni nuovi, apparentemente innocuo, privo di nocumento per gli altri, tutto riversato su noi medesimi. Pare una estensione del “self made man” senza quella punta di arrivismo che veniva mostrata in alcuni film con attori hollywoodiani di successo. Nessuno vuole scavalcare nessuno ma soltanto “farsi una propria vita“.

Forse che negli anni ’50 e ’60 non si voleva lo stesso? Passione, amore, sentimenti giravano vorticosamente uniti tra libri, baci, carezze e amplessi che non erano disgiunti dalla coscienza di classe, dalla voglia di partecipare alle manifestazione, di costruire assemblee e momenti di confronto. La vita era tutto quello e non altro. Ed era impossibile pensare alla vita senza pensarla anche come lotta, senza alcun spirito di sacrificio, senza doversi convertire alla teologia del martirio cristiano.

Ma allora la partecipazione alla vita sociale era, per l’appunto, collettiva. L’approccio non era singolare: non ci si pensava come pienamente vitali se non in funzione di una collaborazione che investiva tanto l’ambito familiare quanto quello lavoratori, tanto quello culturale quanto quello delle passioni sindacali, politiche, persino religiose e filosofiche.

Il capitalismo ha reintrodotto la competizione ovunque, ha particolarizzato le nostre esistenze a cominciare dalla privatizzazione del sapere, dalla mutazione genetica della scuola della Repubblica in una scuola delle aziende, finalizzata alla ricerca di mano d’opera qualificata, da individuare fin dai banchi dei licei e degli istituti tecnici.

La creazione di vaste sacche di povertà ha fatto in modo che quel che rimaneva della coscienza civile e sociale, della partecipazione collettiva venisse atomizzato dal confronto-scontro con lo “straniero“, col “migrante” ladro del lavoro autoctono, della terra nostra, della ricchezza nazionale.

La comunicazione ripetitiva, incessante, ossessivo-compulsiva dei messaggi da parte della televisione e quella ancora più perversa macchina di trituramento delle coscienze che sono i “social network“, hanno svolto la loro parte nel migliore dei modi e hanno fatto in modo di far credere che la vera lotta sociale e politica si svolgesse dalla trasmissione dei segnali da una tastiera di computer ad uno schermo dove era potenzialmente possibile che tutto il mondo – addirittura! – ci sentisse.

Siamo stati egoisticizzati e narcisizzati per bene, fino a sviluppare un edonismo privo di scrupoli in alcuni casi, carsicamente crescente dentro noi per tutto il resto di una umanità ormai priva di qualunque determinazione per capire che nei “social” c’è soltanto il “fenomeno” della lotta a mostrarsi con parole e immagini; mentre la vera lotta è al di fuori del computer. Passa per il confronto personale, per lo scambio di opinioni nel reale, per la verifica dei rapporti di forza nella società.

Vi siete lasciati convincere dalla rassegnazione che ha sedotto le parti più subdole di un conscio spaventato dalla crisi economica, ora da quella pandemica e avete pensato che sono ore buttate via quelle date alla Causa: meglio restare seduti comodi sul proprio divano, nella “propria” vita a guardare la televisione, magari a cena con gli amici piuttosto che riunirsi e immaginare, progettare, disegnare una strategia politica per l’immediato avvenire.

E’ stata l’alternativa che vi ha fregato: ritenere che lo stare con la propria fidanzata o fidanzato, con gli amici o con i parenti fosse vivere, mentre continuare a fare politica, ad impegnarsi civilmente sul terreno sociale fosse morire a poco poco, quindi sprecare del tempo, sciupare degli attivi di esistenza da vivere succhiando quel midollo da “carpe diem“.

Non c’è alternativa ma univocità: non possiamo separarci dal mondo in cui viviamo. Possiamo viverlo senza curarci delle conseguenze, facendo finta che non si sia in grado di agire concretamente per cambiarlo, ognuno, preso da solo. E nemmeno con la poca forza di una sinistra che è irriconoscibile proprio grazie alla consunzione che ha subito nel corso degli anni: perché nessun concetto politico, nessuna forma politica è separabile dal corpo vivo, dall’essere vivente che li interpreta e che ne diviene manifestazione concreta e visibile.

Il capitale ha vinto su tutti i fronti: ha sconfitto le lotte per i diritti civili sul piano sindacale; sfrutta senza nessuna pietà le giovani e medie generazioni in lavori schiavistici; piega al consumismo più sfrenato ogni particolare desiderio che nasce in noi e ci priva dell’osservazione attenta dei particolari facendoci immaginare grandi sogni che non potremo mai realizzare. Infine, ci spersonalizza nel nostro essenziale, nella capacità di contraddirlo, di alimentare il dubbio, di essere critici senza se e senza ma, di accorgerci che la vita, per quanto bella possa essere, senza una lotta per renderla a misura d’essere vivente e di natura (non soltanto di essere umano) è una mera trasformazione di insoddisfazioni in apparenti, accettabili particelle di felicità.

Dobbiamo risolvere tante problematiche legate alla riorganizzazione della sinistra di alternativa e di opposizione: dobbiamo farlo partendo da più linee che convergano nel progetto di ridare agli sfruttati lo strumento per trovare ancora una volta nella lotta la più grande delle felicità, la più bella espressione di sé stessi nell’unione tra passione sociale e amore individuale, tra slancio ideale e sguardo reale.

…e adesso, ascoltatevi Ivan Della Mea… E’ necessario, è corroborante, perché dobbiamo capire se possiamo dare ancora una speranza al nostro NO. Nostro, di ciascuno, di tutte e di tutti.

MARCO SFERINI

11 ottobre 2020

Foto di David Nisley da Pixabay

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