Dall’Ilva all’Italia: il pubblico al posto del privato

Per ora si tratta di un passo avanti. Se successivamente se ne faranno due indietro, è ancora tutto da stabilire. L’accordo siglato sul destino dell’ex ILVA di Taranto segna...

Per ora si tratta di un passo avanti. Se successivamente se ne faranno due indietro, è ancora tutto da stabilire. L’accordo siglato sul destino dell’ex ILVA di Taranto segna il ritorno del meccanismo della “partecipazione statale” ad una impresa, di cui prende il controllo azionario e finanziario, ma dove è prevista la cogestione amministrativa, quella che oggi viene pomposamente chiamata “governance“.

Arcelor Mittal dunque, dopo anni di controversie, si fa da parte, senza lo scudo penale, ma con la garanzia che tutte le pendenze che le ondeggiavano sul collo come una spada di Damocle, saranno cancellate. Si spera che non vengano anche dimenticate, perché all’origine di queste obiezioni mosse dalla magistratura e sostenute da comitati dei cittadini di Taranto e dallo stesso governo, riguardavano e riguardano tutt’oggi la contraddizione purtroppo evidente tra produzione (quindi lavoro) e ambiente (quindi salute).

Purtroppo è sistemica questa dicotomia nel regime economico dominante: la produttività è la precondizione per qualunque gruppo industriale, per qualunque padrone che voglia rimanere sul mercato e concorrere senza essere surclassato da altre aziende. La salute diviene, pertanto, una variabile dipendente da tutto quanto determina l’assolvimento dei tempi di trasformazione delle merci tramite la forza-lavoro operaia e, naturalmente, lo sfruttamento della medesima con salari sempre meno competitivi rispetto al resto d’Europa, come nel caso italiano e, nello specifico, delle acciaierie di Taranto.

Mentre si discute del ritorno dello Stato nello stabilimento pugliese, il più grande del Vecchio Continente in quanto a produzione di acciaio, per struttura centrale e per indotto, vengono pubblicati studi sull’impoverimento del variegato precario mondo del lavoro, altamente sottopagato: la pandemia ha svolto un ruolo non certo secondario nel ridimensionare il potere di acquisto dei salari, nel costringere milioni di precari e di lavoratori autonomi a dover far fronte alle esigenze e ai bisogni propri mediante un ricorso disperato a compromessi sempre più al ribasso con i rispettivi padroni.

Tuttavia, sarebbe beffardo scaricare sui lavoratori la colpa di una economia che non fa quei necessari passi che dovrebbe poter fare per segnare una ripresa – seppur minima – nel contesto del passaggio critico tra l’anno orribile del Covid-19 e il secondo anno che si presume possa essere meno orribile di quel che si può immaginare.

La crisi dell’Arcelor Mittal non è, da questo punto di vista, certamente inquadrabile nel periodo pandemico: viene da lontano e si porta appresso un coagulo di problematiche che parlano esplicitamente della crisi di un sistema produttivo che non riesce da solo, obbedendo ciecamente alle leggi del profitto, a mettere mano all’annoso conflitto sulla modernizzazione degli impianti con sistemi tecnologici in grado di abbassare drasticamente l’inquinamento nella provincia di Taranto e, più latamente, del territorio in quanto ambiente aereo ed idrogeologico.

Mentre il lavoro viene sempre più sottopagato e la crescita dei nuovi poveri passa in Italia in un decennio dal 9,5% al 12,2%, mentre viene ulteriormente svalorizzato il valore tanto manuale quanto intellettivo di una intera generazione di giovani diplomati e laureati costretti ad un precariato costante e ad una sorta di part-time involontario, lo Stato non rimette in discussione il paradigma del privato e della sua presenza in centri nevralgici dell’economia strutturale del Paese.

La caduta verticale del potere di acquisto dei salari è anche determinata dalla crisi economica cui si aggiunge quella pandemica ma, va evidenziato senza alcuna remora, che la diminuzione in termini assoluti, quindi in denaro sonante, del capitale variabile è un comportamento ormai considerato consuetudinario tra le organizzazioni padronali che non subiscono ritorsioni operaie, sindacali tali da frenare la prepotenza datoriale che viene data per acquisita e giustificata con l’alibi della difficoltà complessiva del sistema-Paese.

Per quanto possa essere apprezzabile un ritorno del pubblico nel settore dell’acciaio, anche qui non è possibile non considerare la contropartita per il privato che ne esce senza rispondere ai cittadini e ai lavoratori in alcun modo per i tanti danni provocati con una gestione che ha mantenuto intatti gli impianti produttivi più inquinanti d’Italia, che hanno causato migliaia di morti e che continueranno a causarne se non si provvederà in tal senso, se non si metterà al primo posto, come assoluta precondizione per poter lavorare e vivere, proprio quella salute di cui tanto si parla in tempi di coronavirus.

Impoverimento sociale, dimagrimento del salario a fini assolutamente privati, sfruttamento dei lavoratori con regimi produttivi e impieghi privi di una contrattualizzazione che non è indeterminata da troppo tempo, che risponde a tutti i peggiori istinti della precarizzazione, tutto questo dimostra che la crisi economica è anche crisi di impresa, dal punto di vista di Confindustria e dei padroni, ma è prima di tutto crisi del lavoro, della vita dei lavoratori e delle lavoratrici e del mondo della disoccupazione e dell’inoccupazione a lungo termine.

Ne è prova l’enormità del monte ore di cassa integrazione che è verificabile nella sua crescita veramente esponenziale in questo 2020 in cui la pandemia ha compresso la libertà comune e di ciascuno, defraudato milioni di famiglie della dignità di vivere e consentito a grandi gruppi industriali di arricchirsi senza nemmeno pagare le tasse in Italia, forse in qualche paradiso fiscale d’Europa; alla peggio direttamente alle Cayman, così da sfuggire da procedure di infrazione di qualunque tipo.

E’ necessario dunque un ritorno dello Stato nell’economia, riportando il privato al suo ruolo capitalisticamente inteso: fare il privato in tutto e per tutto, quindi stare al di fuori della sfera pubblica che, invece, viene naturalmente utilizzata e vampirizzata quando le crisi del mercato si fanno sentire e determinano, in tutta la loro chiarezza lapalissiana, le disastrose scelte speculative di una classe dominante priva di scrupoli, che rischia, specula, perde e poi pretende di vedere sanati i suoi debiti con gli interventi pubblici.

Non solo all’ex ILVA di Taranto, dunque, ma in tutti i settori dati in appalto al privato, la riconversione al pubblico deve diventare una regola, assicurando a tutti i lavoratori la continuità della loro occupazione, senza lasciare a casa nessuno, visto che le colpe non sono di chi presta la propria mente e le proprie braccia per arricchire altri, ma sono di un sistema ineguale che, per quanto possibile, non essendo così vicino il momento del suo capovolgimento, va contenuto negli eccessi e ridimensionato nelle pretese dei suoi corifei.

MARCO SFERINI

12 dicembre 2020

foto: screenshot

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