Le ferie per Bolsonaro potrebbero finire presto. E male. Il cerchio continua infatti a stringersi attorno a lui e non c’è più a proteggerlo nemmeno il foro privilegiato (il diritto delle alte cariche dello Stato di non essere giudicate penalmente dai tribunali comuni).

A far precipitare ulteriormente la sua situazione è stato il ritrovamento, nel corso di una perquisizione in casa di Anderson Torres – il suo ministro della Giustizia, poi segretario di Sicurezza pubblica del Distretto federale, per il quale è stato già spiccato un ordine di arresto -, di un piano per ribaltare il risultato delle elezioni di ottobre. Una bozza di decreto il cui obiettivo era portare Bolsonaro ad assumere il controllo del Tribunale superiore elettorale (Tse) in maniera che si autodichiarasse vincitore.

Dagli Stati Uniti, l’ex ministro Torres, il quale ha annunciato attraverso il suo avvocato la sua intenzione di tornare in Brasile per costituirsi, si è giustificato dicendo che il documento avrebbe dovuto essere «triturato» e che è stato estrapolato dal «contesto» per danneggiarlo. Passano proposte di ogni tipo per il ministero della Giustizia, ha detto, e spetta a chi lo presiede «discernere cosa effettivamente giovi al paese».

Ma la bozza di decreto trovata dalla polizia federale in un armadio della sua casa non si può certo far passare come una proposta tra le tante. Il documento avrebbe stabilito lo «stato di difesa» – un meccanismo a cui il presidente può ricorrere in caso di instabilità costituzionale – nella sede del Tse, «regolamentando» l’accesso agli uffici (e naturalmente al trattamento dei dati telematici relativi alle urne elettroniche) e costituendo una «commissione di regolarità elettorale», «con l’obiettivo di garantire la preservazione o l’immediato ripristino della correttezza del processo elettorale del 2022».

Un piano golpista a tutti gli effetti, dunque, che rimanda dritto dritto a Bolsonaro, contro cui non a caso il capogruppo della maggioranza al Senato Randolfe Rodrigues ha subito presentato alla Corte suprema la richiesta di aprire una nuova indagine. La quale si aggiunge a quella inviata da 80 publici ministeri alla Procura generale della Repubblica affinché Bolsonaro sia indagato per istigazione a delinquere in relazione agli atti golpisti dell’8 gennaio.

Ma per l’ex presidente le cose non si mettono bene neppure negli Stati uniti, dove 46 deputati del Partido democratico hanno inviato una lettera a Biden chiedendogli la revoca del visto diplomatico e sollecitando un’indagine dell’Fbi sul ruolo da lui giocato in territorio statunitense in relazione all’assalto ai palazzi delle istituzioni.

Continua la bufera anche sulle forze armate, mentre affiorano man mano nuove prove sulla loro complicità con i golpisti. «C’è stata molta gente connivente tra la polizia militare, tra le forze armate», ha dichiarato Lula durante un incontro tenuto giovedì con la stampa: «Sono convinto che la porta del Planalto sia stata aperta per far entrare queste persone, perché non è stata sfondata, qualcuno ha facilitato il loro ingresso». E, quando «la polvere si abbasserà», ha promesso di vedersi tutti i nastri registrati dalle videocamere di sorveglianza.

Riguardo al ministro della Difesa José Mucio, scelto proprio per tendere una mano ai militari, Lula non ha tuttavia voluto strappi. Malgrado parte del Pt non risparmi critiche al ministro, soprattutto per il modo ultra soft in cui ha negoziato con i militari lo smantellamento degli accampamenti bolsonaristi, il presidente gli ha rinnovato la sua fiducia: «Tutti commettiamo errori».

Una magnanimità che si spiega, anche, con l’esigenza di procedere con i piedi di piombo nei confronti del via via più marcato protagonismo dei militari, avviando in maniera morbida e graduale la necessaria de-bolsonarizzazione delle forze armate.

L’estremismo di destra, insomma, andrà sconfitto passo passo, perché la prova di forza offerta l’8 gennaio non è stata di poco conto. E forse è stato proprio questo – battere un colpo con tutto il clamore possibile – l’obiettivo dei golpisti: non un colpo di stato, almeno non adesso, ma un atto che mostrasse la vulnerabilità del governo a soli 8 giorni dal suo insediamento, provocasse una crisi di legittimità – che per fortuna non c’è stata -, tastasse il terreno per una futura e decisiva offensiva anti-democratica.

Potrebbe tuttavia essersi rivelato un boomerang: secondo un sondaggio di Datafolha divulgato mercoledì, sarebbe stato addirittura il 93% dei brasiliani a condannare l’invasione dei palazzi delle istituzioni, a fronte di un misero 3% schierato a favore alle mobilitazioni golpiste.

CLAUDIA FANTI

da il manifesto.it

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