Una gigantesca macchina per la disumanizzazione

Saggi. La casa editrice ombre corte ripropone il «Discorso sul colonialismo» di Aimé Césaire, con la prefazione di Miguel Mellino
Aimé Césaire

Non erano passati che cinque anni dalla fine della Seconda guerra mondiale quando Aimé Césaire dava alle stampe il suo Discorso sul colonialismo, che la casa editrice ombre corte ripropone oggi nella bella edizione a cura di Miguel Mellino e con una postfazione di Boubacar Boris Diop (pp. 130, euro 12). E la sua analisi prendeva con sicurezza le mosse da «Hitler» e dall’«hitlerismo», per proporne uno studio «clinico».

Si trattava per il grande intellettuale e politico martinicano di rivelare al «borghese distinto, umanista, cristiano del XX secolo» che «Hitler abita in lui, che Hitler è il suo demone». E in particolare che quel che l’Europa borghese non perdona a Hitler non è «il crimine in sé, il crimine contro l’uomo, ma il crimine contro l’uomo bianco, il fatto di avere applicato all’Europa quei procedimenti colonialisti che fino allora erano riservati in esclusiva agli arabi d’Algeria, ai coolie dell’India e ai negri dell’Africa».

Era quello che Césaire chiamava «effetto boomerang della colonizzazione», che era stato anticipato nel 1946 da W.E.B. Du Bois (The World and Africa) e che si ritrova nelle Origini del totalitarismo di Hannah Arendt, la cui prima edizione uscì nel 1951. Nel testo di Césaire, il riferimento a Hitler e all’hitlerismo rinvia a una specifica interpretazione del colonialismo e al tempo stesso – secondo modalità che sarebbero risuonate in Frantz Fanon – getta luce sulle poste in palio nelle lotte per la decolonizzazione.

«L’Europa è indifendibile», scrive Césaire dal primo punto di vista. I due grandi problemi che essa nella sua storia moderna ha generato – la questione del proletariato e quella coloniale – si rivelano impossibili da risolvere nella congiuntura segnata dalla Seconda guerra mondiale. Le lotte anticoloniali, dal secondo punto di vista, sono chiamate a innovare profondamente sul terreno che Césaire definisce, riprendendo criticamente le retoriche di legittimazione del colonialismo, della «civiltà».
La colonizzazione, nella prospettiva di Césaire, è una gigantesca macchina di disumanizzazione. Anche da questo punto di vista, le risonanze del Discorso nell’opera di Fanon sono cospicue.
Si pensi all’insistenza di quest’ultimo, nei Dannati della terra (1961), sull’«animalizzazione» del colonizzato, sull’uso di un «linguaggio zoologico» e sul costante riferimento al «bestiario» da parte del colono. Nella prospettiva di Césaire, una sorta di dialettica della bestialità finisce per coinvolgere proprio quest’ultimo, che abituandosi a «vedere nell’altro la bestia», allenandosi per «trattarlo da bestia», «tende obiettivamente a trasformarsi lui stesso in bestia». L’umanesimo europeo si specchia qui nel suo fondo più oscuro e ne risulta radicalmente messo sotto accusa. Un «umanesimo vero», il che significa un «umanesimo a misura del mondo» resta semmai un progetto per il futuro, consegnato all’azione convergente delle lotte anticoloniali e delle lotte proletarie in Europa. Ancora legato al Partito comunista francese (la rottura avverrà nel 1956, con una celebre lettera a Maurice Thorez), Césaire vede infatti nel Discorso nei movimenti e nelle lotte rivoluzionarie del proletariato l’unica chiave per la «salvezza dell’Europa».

Il discorso sul colonialismo di Césaire è un’opera di fondamentale importanza nella storia delle lotte anticoloniali all’indomani della Seconda guerra mondiale. Come mostra Miguel Mellino nella sua ampia introduzione, è anche un testo stratificato e complesso, nella cui composizione si possono distinguere i diversi momenti della formazione politica e della pratica letteraria di Césaire – dal panafricanismo al modernismo e al surrealismo.
Leggere oggi il Discorso consente di ritornare su quel processo di decolonizzazione che rappresenta per molti versi una delle origini del nostro presente. Ma il testo di Césaire offre anche strumenti analitici che consentono di cogliere criticamente la riproduzione di logiche e dispositivi coloniali dopo la decolonizzazione – nel governo delle migrazioni, ad esempio, e nelle tendenze a una gerarchizzazione dell’umano che lo innervano, nel Mediterraneo così come nei tanti ghetti dove vivono i migranti impiegati in agricoltura in Italia e altrove in Europa.

SANDRA MEZZADRA

da il manifesto.it

foto: screenshot

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