Un calcio alle riaperture: l’Italia nel pallone

Se la pandemia del Covid-19 fosse scoppiata nell’antica Grecia, quella delle Olimpiadi, quella di Licurgo e di Pericle, delle storie di Erodoto e dei primi testi storici di Senofonte,...

Se la pandemia del Covid-19 fosse scoppiata nell’antica Grecia, quella delle Olimpiadi, quella di Licurgo e di Pericle, delle storie di Erodoto e dei primi testi storici di Senofonte, il cosiddetto “calendario delle riaperture” sarebbe partito con la riapertura prima di tutto dalla scuola. Di qualunque tipo: quella peripatetica, quella del giardino epicureo, quella “istituzionale” delle varie città stato elleniche. Poi sarebbe toccato agli odeon e alle agorà dove poter ritrovare cultura, idee, socializzazione e, in contemporanea, anche i mercati.

Per ultimo si sarebbe pensato allo sport, che ogni cittadino praticava tanto singolarmente quanto in accademie, preparandosi nelle discipline del pentathlon per le gare olimpiche, simbolo di pace e di fratellanza.

I romani avrebbero forse seguito uno schema simile, magari ponendo prima degli odeon i circhi, come segno di devozione agli dei, sacrificando un po’ di vittime innocenti nel nome della salute pubblica, del popolo, del senato e dell’imperatore. Del resto, mentre i greci discutono di filosofia e di arte, Giovenale lo scrive nella sua decima satira: «… [il popolo] due sole cose ansiosamente desidera: pane e giochi circensi». Ci avrebbero messo più tempo di noi nel trovare un varco di uscita dalla pandemia, non avendo vaccini, affidandosi solo ad una immunità di gregge raggiunta al caro prezzo di chissà quante decine di migliaia di morti.

Spostandoci un po’ più avanti nel tempo, nel XIV secolo, osservando magari una carta storica sullo sviluppo della peste nera, è del tutto evidente che in mancanza di una cura anche minima, anche solo attenuante gli effetti del morbo, il prolungamento temporale è strettamente legato all’incapacità inversamente proporzionale del virus di diffondersi a causa della mancanza di soggetti da infettare. Metà della popolazione europea sterminata, l’altra metà immunizzata, pochissime centinaia di migliaia salve del tutto dal contagio.

Dal 1338 al 1352, in quindici lunghissimi anni, la Yersinia pestis si diffonde dalla Cina e dall’Oasi di Ysykkol fino all’India e al Mar Nero. Saranno probabilmente i genovesi a portarla nel cuore dell’Europa, dopo l’assedio di Caffa da parte dei mongoli dell’Orda d’oro che, stremati pure loro dalla peste, per piegare le resistenze dei soldati della Superba, catapulteranno i cadaveri dei loro stessi soldati dentro la città.

Le navi di ritorno dalla città della Crimea, piene di truppe e marinai ormai infettati, faranno quindi da traghetto per il virus.

Insomma, ogni epoca, ed ogni popolo in ogni singola epoca, si sarebbero comportati diversamente, salvo riscontrare – come facciamo noi oggi – una necessaria e sempre maggiore unità di intenti nell’affrontare la pandemia e nell’imboccare la via d’uscita che ci permetta, gradualmente, di dirigerci verso quel traguardo di normalità che sta diventando fenomeno e concetto usato e abusato, mantra ricorrente in ogni discorso televisivo e ogni dibattito, perché altrimenti, se non lo si cita, pare di essere troppo pessimisti e di alimentare così sfiducia e sfibramento di una società che è già tale.

Mentre greci e romani avrebbero pensato ad un recupero anche culturale del e nel loro mondo, nell’Italia modernissima (prego, cogliere l’ironia) del 2021 dopo Cristo, garantiti tutti i rifornimenti possibili di merci e gli scambi commerciali per non far mancare praticamente nulla di primario alla popolazione, le priorità assolute in tema di aperture sembrano essere gli stadi di calcio. Va bene, “panem et circenses“, come ai tempi di Giovenale: lo spettacolo, del resto, deve continuare, facendo finta così di recuperare un po’ di quel danno psicologico che alberga in tutti noi, consapevoli o meno che ne siamo.

Il divertimento, la distrazione, la stessa cultura del confronto e della competizione che lo sport porta avanti da sempre meritano di non essere trascurate. Ma, francamente, prima di riaprire gli stadi a decine di migliaia di spettatori, magari pure dimezzati, magari pure con le mascherine e tutti igienizzati all’ingresso, sarebbe bene pensare a riaprire in sicurezza esercizi commerciali, ristoranti, catene di produzione ferme da troppo tempo e salvare una economia che si riversa sul pubblico, che rimette in moto domanda e offerta, che magari – ci si scusi se è poco! – toglie dalla gogna dell’incertezza del “dopo-blocco dei licenziamenti” le lavoratrici e i lavoratori.

Se delle priorità devono esistere, allora siano prima di tutto priorità che mirano a sostenere, a partire dal piano strutturale economico, tutta una serie di diritti fondamentali che andranno ampliati; così come andrà rivista l’inefficiente macchina amministrativa istituzionale, rivedendo il ruolo delle regioni, ridiscutendo il Titolo V della Costituzione e riaffidando allo Stato una serie di competenze che ne facciano veramente una Repubblica unitaria ed eguale da nord a sud, senza distinzioni di PIL, senza trattamenti differenziati in base alla ricchezza prodotta.

Prontamente, almeno, il ministro Franceschini ha un po’ frenato sulla sola riapertura degli stadi. Se il calcio è cultura, è anche vero che la cultura vive prevalentemente fuori dagli stadi. “Mens sana in corpore sano” non può essere citato come motto a sostegno delle tifoserie che pinguemente siedono sugli spalti ad urlare a squarcia gola per incitare chi corre (a suon di milioni di euro). Va fatto un discorso complessivo che includa tutto il mondo dello sport, mentre una buona parte di questo Paese rischia viziosamente di preferire soltanto le riaperture degli stadi per le partite di campionato e delle varie “champions“, piuttosto che per tutti gli sport, per le palestre e per i luoghi in cui si praticano esercizi di allenamento tanto del corpo quanto della mente.

E’ anche questa una visione parziale di un aspetto globale di una cultura sociale che non ammetta privilegi, visto che la cultura include ogni manifestazione umana tanto della mente quanto delle braccia e delle gambe. Lavoro, scuola, attività sociali e politiche, spettacoli teatrali, concerti grandi e piccoli, attività sportive di qualunque tipo si tengono fra loro e rendono possibile una compiutezza umana che in molti è determinata dal soddisfacimento di più discipline allo stesso tempo, in altri dalla concentrazione magari in una unica passione.

Che si sia pensato prima di tutto al calcio come fenomeno sociale di massa da cui ripartire, facendo riferimento al mondo dello sport e più latamente alla quotidianità di ognuno di noi, è una particolarità italiana. Sarebbe stato piacevolmente sorprendente se dal coro politico e da quello popolare si fosse levata la voce di una voglia, di un desiderio spasmodico di riapertura prima di tutto dei teatri e dei cinema.

Così sia: diamo un calcio al pallone e poi, forse, torneremo anche a sederci nelle grandi sale per guardare finalmente sul grande schermo tutto quello che non abbiamo potuto vedere in un anno e mezzo (facciamo ormai pure due…) di pandemia.

Dimenticavo… Forza Inter!

MARCO SFERINI

15 aprile 2021

Foto di Capri23auto da Pixabay

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