Un altro tassello di guerra globale nelle acque di Taiwan

Coloro che minimizzano l’intero contesto globale dello sviluppo degli scenari di guerra, scordano, o fanno finta di dimenticare, che l’interconnessione degli interessi tra i vari poli economico-finanziari sparsi per...
Lai Ching-te e Xi Jinping

Coloro che minimizzano l’intero contesto globale dello sviluppo degli scenari di guerra, scordano, o fanno finta di dimenticare, che l’interconnessione degli interessi tra i vari poli economico-finanziari sparsi per il pianeta è una delle piattaforme su cui si accendono le fiammate conflittuali tra gli Stati.

Gli atteggiamenti imperialistici della Russia da un lato, della NATO e degli Stati Uniti dall’altro, della Cina da un altro lato ancora, ma non di meno della Turchia neo-ottomana di Tayyip Erdogan o dell’Israele guerrafondaio e genocida di Netanyahu, fanno parte di un disegno di ridefinizione anche dei confini geopolitici ma, prima di tutto, di una spartizione strutturale delle zone di influenza.

Per questo chi minimizza, che relativizza e prova a regionalizzare tutte queste guerre, nei fatti o minacciate che siano, fa un cattivo servizio alla cronaca oggi, un torto all’intelligenza propria, uno sgarbo alla nostra e revisiona in parte la scrittura di una storia che si proietta nella più completa incertezza del prossimo futuro.

Prova ne è l’annosa questione del disconoscimento reciproco tra Repubblica Popolare Cinese e Repubblica di Cina, meglio come conosciute l’una come la Cina propriamente detta, la gran parte continentale del vecchio impero prima e della repubblica poi; l’altra come Taiwan (o Formosa un tempo…).

L’una rivendica l’altra come l’unica Cina possibile. L’una tollera l’altra in un complicatissimo e delicato equilibrio di “status quo” che, proprio con l’ultima elezione presidenziale di Taipei, pare essersi incrinato e rischia di far precipitare lo schema di reciproca guardinga osservazione permanente.

Lai Ching-te, nuovo capo di Stato taiwanese, ha pronunciato un discorso che, un po’ tutti gli analisti che seguono da vicino la diatriba storica tra le due Cina, definiscono “oltre la linea rossa” di tollerabilità da parte di Pechino.

Uno dei punti che ha esacerbato i toni dall’una e dall’altra parte, è stato proprio la negazione dell’azione subordinata del governo di Taipei rispetto alle scelte di quello della Repubblica Popolare Cinese. Non si tratta di quella dichiarazione di indipendenza che non è mai stata realmente fatta e che, nel caso venisse pronunciata, indurrebbe certamente Xi Jinping a muovere le sue truppe di terra, di mare e dell’aria contro l’isola ribelle; pur tuttavia è un salto di qualità rispetto ai precedenti toni presidenziali.

Vero è che l’operazione denominata “Spade congiunte 2024-A” (dalla prima lettera dell’alfabeto occidentale se ne può dedurre che è probabile si sia innanzi ad una primissima fase a cui ne seguiranno altre e per tutto l’arco del corrente anno) era già stata programmata ben prima che Lai Ching-te si insediasse riaffermando il primato del suo partito, il “Mínzhǔ Jìnbù Dǎng” (“Partito Progressista Democratico“), dal programma politico fortemente indipendentista.

Tuttavia, le parole contenute nel discorso di Lai hanno senza dubbio dato una spinta propulsiva alle operazioni marittime con cui in pratica Taiwan è stata circondata, come presa dentro la morsa di un blocco navale che la faccia sentire assediata, così come le truppe del Kuomintang lo erano state nella Pechino della guerra civile.

Gli analisti concordano anche in questo caso: Xi e il governo della Cina continentale vogliono spingere la popolazione taiwanese ad abbandonare il sostegno al PPD per arrivare ad una assimilazione dell’isola mediante la forzatura del consenso con metodi non direttamente offensivi, ma indubbiamente coercitivi. Per quanto la sproporzione tra Pechino e Taipei sia evidente in termini di grandezza geofisica, politica, economica e militare, la partita è tutt’altro che data per scontata.

Dietro a Taiwan stanno le potenze occidentali, prima fra tutte gli Stati Uniti d’America. Con la Cina, in una appena siglata pace e “amicizia eterna” sta la Russia di Putin e molte altre realtà statali che sono tutt’altro che secondarie nello scacchiere internazionale. Qui si ritorna, come è evidente, alla illusione della minimizzazione del contesto in cui la crisi tra Taipei e Pechino si protrae nel tempo, attraversa i decenni che scavalcano il Novecento e il Duemila, proiettandosi in un futuro in cui nel mondo le guerre aumentano a dismisura.

I fattori di instabilità, quindi, proprio perché si fanno cifra del contesto relazionale sempre più difficile tra gli Stati, con un depotenziamento davvero endemico del ruolo delle Nazioni Unite, aumentano il rischio di una gestione unilaterale dei conflitti, oltre ogni mediazione possibile; soprattutto se si osservano questi scenari geopolitici alla luce degli schieramenti attualmente in campo.

I paesi occidentali da un lato, i paesi medioerientali, sudamericani e asiatici dall’altro. La linea di demarcazione delle alleanze e dei dialoghi diplomatico-politico-economici non è sempre nettissima e continua, ma nessuno può negare che, sostanzialmente, Stati Uniti, Europa, Israele e NATO e Giappone stanno da una parte, Russia, Cina, Palestina, Iran, Brasile, India dall’altra. Senza tralasciare la strategicità dell’intercapedine africana tra questi blocchi, così come il ruolo delle potenze di certo non minori del mondo arabo.

Il discorso di Lai Ching-te ha irritato Pechino perché ha messo in forse il principio stabilito nel 1992, un compromesso riconosciuto sull’esistenza di una sola Cina e sul fatto che non fosse stabilito definitivamente chi la dovesse realmente governare. Su questa punta di spillo di una incertezza senza soluzione di continuità, la storia degli ultimi trent’anni dell’area del Pacifico meridionale è stata scritta con la penna della sospensione del giudizio nella causa storica tra i due paesi.

Uno scontro soltanto rimandato e, comunque, sempre in procinto di divampare in un contesto orientale in cui le tensioni non mancano di certo. Basti pensare alle due Coree e ai rapporti tra quella del Nord con Pechino e Mosca e quella del Sud con Washington. Quella “democrazia” presente nel nome del partito del presidente Lai Ching-te non deve ingannare: si tratta di una forza di centrosinistra ma nettamente anticomunista, nazionalista e indipendentista.

Per Pechino il peggio che vi possa essere attualmente sullo scenario politico taiwanese. Non va sottovalutato il fatto che, nell’agone della politica isolana, la rivalità tra la coalizione “Pan-verde” guidata dal PPD e da quella “Pan-azzurra” guidata dal Kuomintang, giochi un ruolo di primo piano la contesa su chi meglio possa rappresentare il futuro di Taiwan nell’evolversi della situazione su una scala molto più elevata di quella strettamente locale e regionale.

Il partito di Lai Ching-te si oppone al dialogo con Pechino, mentre il Kuomintang ha aperto da tempo ad una collaborazione con la Repubblica Popolare, a scambi commerciali, ad una ipotesi, che però rimane soltanto sulla carta, di una riunificazione che riconosca la pienezza dei diritti dei cittadini taiwanesi che, ormai da generazioni, sono autoctoni di uno Stato non riconosciuto dalla maggior parte del mondo, né dall’ONU, tanto meno dagli Stati Uniti d’America nonostante ne sia divenuto una base di appoggio nell’Asia meridionale.

Quella che, da illustri riviste di geopolitica, viene chiamata la “sfida sino-americana” si svolge su un asse che da nord a sud coinvolge Pechino, Pyongyang, Seul, Tokyo, New Delhi, tutta la vecchia regione indocinese, le Filippine, l’Indonesia fino ad arrivare alla zona austrialiana. Un asse che divide l’Asia a metà e che, al tempo stesso, è la congiunzione tra i conflitti occidentali ed orientali con da un lato l’infuocatissimo Medio Oriente e dall’altro una Repubblica stellata prossima al voto presidenziale.

La guerra russo-americana in Ucraina, quella tra Israele e Hamas (con più a sud il regime yemenita degli Houthi che controlla lo stretto di Aden) e quella non dichiarata ma comunque combattuta sulla linea invisibile dei mari tra Cina e Taiwan, sono un trittico bollente di nazionalismi, imperialismi e militarismi che sovvertono ormai a tutto spiano il vecchio schema unipolare di un mondo in cui Washington ha perso il primato, e quindi il controllo egemonico, dopo la fine della Guerra fredda e il crollo del Muro di Berlino.

La migliore definizione di multipolarismo moderno possono darla, purtroppo, proprio questi conflitti permanenti che si trascinano da più di cinquant’anni e che, con la sola differenza della questione ucraina, fanno riferimento a mutamenti avvenuti tra la Prima e la Seconda guerra mondiale.

L’enorme diversità in cui, rispetto a ieri, si vengono a trovare oggi le posizioni cristallizzate su etnocentrismi che hanno il loro baricentro nel consolidamento di posizioni di prestigio nel traballante eppure dominante liberismo globale, incide fino ad un certo punto nell’evolversi dei conflitti.

Le ragioni per cui non si riesce a placare queste guerre è, in larga misura, nell’equilibrio precario che si è determinato di volta in volta dal fronteggiarsi rispetto al collaborare allo sviluppo mondiale. Questo esige il capitalismo moderno nella sua torsione autoritaria liberista. Questo pretende la concorrenza tra potenze emergenti e riemergenti che contendono il primato geopolitico, militare e strategico agli Stati Uniti d’America ed all’asse con una Europa che ne è la protesi bellica nel contesto ucraino.

Per questo la sottovalutazione è comunque sempre un grossolano errore: scindere gli scenari di guerra attuali e separarli pensandoli come regionalizzabili e, quindi, risolvibili l’uno a prescindere dall’altro, è anzitutto una mistificazione dei complessi rapporti di forza tra le nazioni in contesa fra loro e, al contempo, delle profonde crisi sociali che attraversano quelle aree. In particolare la questione mediorientale è, da questo punto di osservazione, la più drammatica.

La visita di Putin in Cina ha rilanciato l’asse tra Mosca e Pechino ed è un messaggio invitato ad Ovest quanto ad Est nella dinamicissima evoluzione globale degli eventi. Xi Jinping prova a mostrare i muscoli dopo l’elezione di Lai Ching-te e pare aprire quindi un capitolo nuovo nella storia del conflitto tra le due Cine. Se la tattica dell’assedio navale possa portare a più miti consigli il partito del neopresidente è tutto uno stare in un indistricabile busillis.

Potrebbe anche sortire l’effetto opposto ed irrigidire le posizioni, nonché l’atteggiamento dell’opinione pubblica. Certo è che il fronte di guerra dello stretto di Taiwan si allarga spaventosamente e fortifica soltanto la giusta analisi di chi, unendo i puntini di questo disegno apparentemente invisibile, non vede altro se non un inasprirsi della guerra globale, della crisi economica che ne sta alla base, di quella ambientale ed ecologica e del grande dramma sociale.

La soluzione, come è evidente, non è affidata alla risposta più o meno democratica di una parte del mondo rispetto ad un’altra, ma alla modificazione dei rapporti di forza tra le classi, tra la stragrande maggioranza dei miliardi di salariati e di indigenti che subiscono tutto questo e sopravvivono o muoiono nel nome di cause che non gli appartengono e una ristretta minoranza di predatori delle risorse di tutti per convenienze del tutto private.

Anche la guerra tra Cina e Taiwan, se guardata attraverso la lente della crisi multipolare e multistrato che attanaglia il mondo, è riconducibile all’effetto di una causa molto, ma molto più grande di quel che si possa descrivere a parole e per iscritto.

MARCO SFERINI

25 maggio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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